Chiara Valentini - Enrico Berlinguer Speciale Enrico Berlinguer

11 giugno 1984 - 11 giugno 2014. A trent’anni dalla sua scomparsa, Enrico Berlinguer resta una delle figure chiave della storia politica repubblicana. Nessun leader italiano è stato popolare, rispettato e amato (ma anche contestato e travisato) come Berlinguer, non solo dal popolo della sinistra, ma da strati ben più ampi di persone per la sua caparbietà nello sfidare le rigidità di un mondo diviso in blocchi, per il coraggio dimostrato nella rottura con l'Urss dopo il colpo di stato polacco e per le sue intuizioni come quando, nei suoi ultimi anni di vita, vide nella questione morale e nella degenerazione dei partiti “ridotti a macchine di potere e di clientela” il problema più drammatico dell’Italia.
Attingendo a documenti inediti, alle testimonianze dei maggiori dirigenti politici dell’epoca, degli amici e dei familiari, Chiara Valentini ricostruisce le idee, le passioni, gli errori e i successi di questo politico “diverso”.

             



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 I ragazzi sono conquistati da questo compagno colto e aristocratico che parla di rovesciamento del potere dei grandi capitalisti e di socializzazione dei mezzi di produzione senza mai perdere la pazienza, dando qualche occhiata a una scaletta di appunti buttata giù sul pacchetto delle Turmac, le sigarette che fin da allora fumava accanitamente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 “L’avanzata dei comunisti può far paura solo ai corrotti e ai prepotenti. Sappiamo bene che la situazione è difficile, i problemi sono complicati, alcuni sono tremendi. Tutto ci spinge ad accentuare il nostro senso di responsabilità e di giusto realismo. Non ci monteremo la testa... Noi vogliamo creare un rapporto positivo fra tutte le forze politiche democratiche che hanno radici nel popolo. La creazione di questa atmosfera è la sostanza del compromesso storico.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Il 26 settembre, proprio mentre il Consiglio dei ministri sta per spaccarsi sulla Fiat, Berlinguer arriva a Torino, a portare la sua solidarietà ai lavoratori che ne hanno chiesto insistentemente la presenza. Accolto dappertutto da una folla enorme, fa il giro dei cancelli delle fabbriche in lotta: Mirafiori, Rivalta, Lingotto, Lancia di Chivasso. Ricorda Angelo Azzolina, segretario della sezione comunista di fabbrica della Carrozzeria di Mirafiori: “Quando Berlinguer era arrivato abbiamo rischiato la pelle per salvarlo dall’abbraccio della folla. Non avevamo nemmeno un palco né un microfono. Dovette parlare su un tavolo traballante, fra donne e uomini che piangevano senza vergogna per la commozione”.
Il giorno dopo i giornali escono con titoli clamorosi:
Berlinguer è pronto ad appoggiare l’occupazione della Fiat, Berlinguer incita alla rivolta. Gianni Agnelli dichiara che esce rafforzato il parere “di quelli che hanno poca fiducia nelle possibilità del Pci di convivere in una società democratica”. E il dirigente Dc Flaminio Piccoli parla della “vocazione dei comunisti alla dittatura del proletariato”. A provocare queste reazioni era stata una frase pronunciata da Berlinguer durante il suo giro. Rispondendo a un sindacalista della Cisl che gli chiedeva che cosa avrebbe fatto se gli operai avessero occupato la Fiat, aveva risposto che la decisione sulle forme di lotta spettava solo ai lavoratori. Aggiungendo che “se si dovrà giungere a questo per responsabilità della Fiat e del governo, i comunisti faranno la loro parte.”
“Ma credi di aver fatto bene?” gli chiede poco dopo Luciano Lama. “Questo è un momento in cui bisogna spendere tutto e dar la prova ai lavoratori che siamo con loro,” risponde Berlinguer, ripetendo che non aveva certo inteso spingerli a occupare la Fiat. “Ho solo detto che, se l’avessero occupata, il Pci sarebbe stato con loro.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 È una strana sera fredda e nuvolosa, con il cielo attraversato da lampi. Le migliaia di militanti arrivati da tutto il Veneto rabbrividiscono nei loro abiti estivi. Si stringe nell’impermeabile leggero anche Lalla Trupia, la responsabile femminile che è candidata alle elezioni europee e che è sul palco assieme al segretario regionale Gianni Pellicani e a un bel ragazzo pallido con la testa riccia, Pietro Folena, il segretario cittadino. Berlinguer, invece, che porta una giacca a quadrettini, ha il primo bottone della camicia slacciato, come se volesse respirare liberamente. Per mezz’ora tutto va bene. Berlinguer ironizza sul governo, spesso provoca l’applauso. Ma ecco un primo segno di affanno. “Siamo di fronte a un momento pieno di insidie per le istituzioni della Repubblica. Ma è certo che...” Berlinguer è impallidito, il tono della voce è calato, la frase resta a metà. L’oratore si volta, le spalle al microfono, per prendere un bicchier d’acqua, ma appena lo beve è colto da colpi di tosse e da conati di vomito. Lo schermo gigante che i comunisti padovani hanno messo dietro il palco rimanda alla piazza l’immagine di una faccia alterata, contratta. “Enrico, Enrico,” cominciano a scandire i militanti. Qualcuno urla: “Sta male, fatelo smettere”. Ma Berlinguer vuole continuare a ogni costo. Il giorno dopo la televisione italiana trasmetterà le immagini del segretario del Pci che tira avanti eroicamente fino alla conclusione pronunciando frasi ormai smozzicate sulla P2, sugli scandali, sulla democrazia malata. Che si copre il volto con un fazzoletto, che scende quasi inerte le scale del palco sorretto dai suoi compagni. Comincia la grande emozione collettiva che durerà per quattro giorni, fino alla mattina di lunedì 11 giugno, quando Enrico Berlinguer cessa di vivere.

Negli anni della rivoluzione neoconservatrice di Ronald Reagan e della Thatcher e dei loro imitatori italiani Ciriaco De Mita e Bettino Craxi, Berlinguer avverte intensamente il senso di un tempo che si sta chiudendo e insieme il bisogno di viverne uno nuovo. Perché non ci siano solo regressione e prepotenza verso i più deboli, ripete a chi gli sta vicino, è necessario capire i guasti del presente e ripensare le coordinate e i valori della sinistra. È il “nuovo” Berlinguer, che si interroga sul rinnovamento della politica e individua in un tema estraneo alla cultura politica italiana come la questione morale “la questione nazionale più importante”. “Deve essere impazzito,” si mormora alle Botteghe Oscure. Berlinguer insiste sulla degenerazione dei partiti, “ridotti a macchine di potere e di clientela”, suggerisce che il progressivo svuotamento della democrazia non è l’unico destino possibile. E insiste sulla orgogliosa rivendicazione della “diversità” del Pci, l’unico a poter rappresentare “il perno” di un nuovo governo e a poter offrire un ricambio di classe dirigente. Parole che gli metteranno contro autorevoli personaggi del suo partito, da Giorgio Napolitano a Luciano Lama. In realtà le intuizioni sulla questione morale, che gli saranno rimproverate anche dopo la sua morte, si sono dimostrate drammaticamente esatte.