Frédéric Martel, Estratti


Le bandiere arcobaleno sventolano sui quartieri gay

Brett è un tipico “New York City Boy”. Gay, newyorkese, funky, pazzesco. Sembra uscito da una canzone dei Pet Shop Boys. Quando l’ho incontrato, Brett era bartender, cioè cameriere, al Big Cup. Al mattino seguiva dei corsi di musica alla New School. Nel pomeriggio si guadagnava da vivere come personal trainer in una palestra. La sera lavorava in un caffè gay di Chelsea, uno dei principali gayborhoods (un neologismo che aggrega le parole neighborhood – quartiere – e gay) di New York. Maglietta stone washed di Abercrombie & Fitch, scarpe Converse All Star, jeans strappati, capello spettinato, occhi esageratamente azzurri, Brett era gay full time. Usciva tutte le sere. La sua regola di vita: no straight people after eight p.m., niente etero dopo le venti. Vedendolo oggi nel suo primo videoclip trasmesso su Logo, il canale Lgbt di Mtv, i capelli sono più lunghi, ha un’aria più sicura di sé, ha mantenuto l’atteggiamento da indie, molto americano, l’atteggiamento dell’alternativo di successo. “Sono prima musicista e poi gay. Ho scelto di fare coming out su Logo, ho fatto cleaning up my closet, ho tolto gli scheletri dal mio armadio, come canta Eminem.”
Brett vive la American gay way of life, lavora nel cuore della subcultura gay newyorkese. Locali di musica elettrorock più o meno equivoci, i teatri off-off-Broadway, gli allestimenti sperimentali pubblicizzati su siti internet alternativi, le gallerie d’arte calate nei campus, le nottate trash e tutto quello che si può definire queer. Si sposta senza tregua da un locale all’altro, da un quartiere all’altro. Un giorno è in un bar per travestiti sulla Bowery, nell’East Village, famoso grazie ai reportage di Nan Goldin; un altro è in un locale arty di Hell’s Kitchen dove si proietta Tarnation, un film gay underground. A volte finisce la serata in un ristorante vegetariano di Chinatown che ospita nello scantinato open mic sessions, serate in cui artisti alternativi possono esibirsi liberamente. Andata e ritorno non stop, Brett passa la vita sulla linea a della metropolitana, su e giù, tra Chelsea, East Village, Greenwich Village e Hell’s Kitchen – i quattro principali quartieri gay di New York […]



Culture wars

La città di Colorado Springs, a un centinaio di chilometri a sud di Denver (Colorado), è una roccaforte della destra evangelica americana. Oltre l’Interstate 25, chiamata dai locali Ronald Reagan Highway, un cartellone indica la sede di Focus on the Family. Sulla sinistra c’è un’importante base militare americana; si gira a sinistra su uno svincolo autostradale per raggiungere il numero 8655 di Explorer Drive, quartiere generale dell’associazione. “Explorer” è sicuramente un nome azzeccato. È un viaggio al limite dell’esplorazione spaziale, in un luogo ostile, in un altro mondo e in un altro tempo. Sembra di essere sbarcati su un altro pianeta.
Paul McCusker, vicepresidente di Focus on the Family, mi riceve cordialmente. È un intellettuale che ha pubblicato diversi libri e un drammaturgo di successo tra gli ambienti cristiani. Mi parla di Gesù come di uno dei suoi amici e si dice orgoglioso del successo ottenuto dagli evangelici negli Stati Uniti negli ultimi vent’anni. “A lungo, gli evangelici si sono limitati ai metodi tradizionali. Si accontentavano delle chiesette e delle liturgie. Siamo passati all’era della comunicazione di massa e alle nuove tecnologie applicate all’evangelizzazione. Noi, qui, produciamo programmi radiofonici e televisivi, film, libri, documentari: siamo una vera e propria industria dell’entertainment cristiano. Raggiungiamo il mondo intero.”
Visito insieme a lui gli spazi dell’associazione, dove lavorano milletrecento persone, divise in diversi edifici di pesante architettura neoclassica. È evidente il suo desiderio di impressionarmi. Mi mostra studi radiofonici e televisivi: “Vi abbiamo prodotto più di seicento ore di serie televisive per bambini”. Più che un’organizzazione religiosa, mi sento come in una multinazionale dei media.
Mi racconta del film La Passione di Cristo di Mel Gibson, che è venuto di persona, ha detto, a presentare in anteprima il suo film a Focus on the Family. McCusker è stato anche uno dei protagonisti della riconciliazione tra gli evangelici e la Disney. “Li avevamo criticati aspramente perché avevano creato dei ‘gay days’ a Disneyland e perché permettevano alle coppie gay di ballare insieme a Disney World. Abbiamo organizzato centinaia di manifestazioni per mostrare il nostro malcontento e far cambiare il loro atteggiamento.” (Jeffrey Katzenberg, che è stato capo della Disney ed è molto gay friendly, in occasione di un’intervista rilasciata in seguito mi ha confermato che le scelte pro-gay erano frutto di un’attenta e matura riflessione condotta insieme a Michael Eisner, amministratore delegato della Disney Corporation, e che non sono mai state messe in discussione, a prescindere dalle pressioni ricevute.) McCusker continua: “Disney ha dovuto riconoscere il nostro peso nel formare l’opinione pubblica e quando è stato il momento di lanciare Le cronache di Narnia, ci hanno contattati, ci hanno mostrato il film e noi siamo stati toccati dal messaggio, che è compatibile con la morale cristiana”.
Attraversiamo insieme immensi saloni dove lavorano centinaia di persone, rispondono ai telefoni o spediscono migliaia di lettere per fare pressione sui parlamentari. Come spiega McCusker, il sistema del lobbying è semplice e molto efficace: se un programma televisivo è in contrasto con i valori della famiglia, Focus on the Family innesca un’azione da questa “war room” e mobilita centinaia di migliaia di attivisti in tutto il paese. Chiediamo loro di scrivere una lettera all’indirizzo dell’amministratore delegato degli inserzionisti, impegnandosi a boicottare i loro prodotti, detersivi o yogurt che siano, fino a quando le loro pubblicità saranno diffuse durante il programma antifamiglia. In questo modo, i programmi perdono gli introiti delle pubblicità e le emittenti tendono a togliere dalla programmazione le trasmissioni incriminate.
Nell’ufficio di Paul McCusker ci sono fotografie di Ronald Reagan e di George W. Bush insieme allo psicologo James Dobson, fondatore di Focus on the Family, un famoso telepredicatore. Noto anche una scatola per il recupero delle siringhe usate. “Per i tossicodipendenti?” chiedo al mio ospite. “No,” risponde McCusker, che intuisce dove voglio arrivare e non apprezza il mio umorismo: “Per i diabetici.”
Focus on the Family ha scelto gli omosessuali come principale capro espiatorio. Già a partire dalla fine degli anni ottanta, l’associazione si era distinta per l’attivismo nelle “guerre culturali”. Insieme ad altre lobby, con il pretesto di opporsi ai finanziamenti dati dal governo ad alcune esposizioni omoerotiche, ha lanciato una crociata contro l’arte contemporanea in generale, e quella omosessuale in particolare. Le immagini di Robert Mapplethorpe, Andres Serrano (a causa del suo Piss Christ, un crocifisso immerso nell’urina) e Nan Goldin (a causa di installazioni e immagini sull’Aids) sono le più colpite. Vengono censurati anche altri performer queer (Karen Finley, John Fleck, Holly Hughes e Tim Miller, conosciuti da allora sotto il nome “Nea 4”). Alla fine anche la commedia antirepubblicana pro-gay Angels in America di Tony Kushner ha subìto minacce di censura. “Noi di Focus on the Family siamo rimasti sbalorditi,” dice McCusker, che è stato in prima linea nella lotta. […]



“In Iran non ci sono omosessuali”

Quando incontro Amir (in questo capitolo alcuni nomi, luoghi e situazioni sono stati cambiati) nella periferia nord di Teheran, la sua semplice presenza è una chiara smentita della menzogna di stato pronunciata da Mahmoud Ahmadinejad. In una conferenza pubblica presso la Columbia University di New York, per eludere la domanda di uno studente americano sulle esecuzioni degli omosessuali, il presidente iraniano ha affermato il 24 settembre 2007: “In Iran non ci sono omosessuali come nel vostro paese. [Risate in sala.] Noi non abbiamo niente di simile nel nostro paese. [Caos tra il pubblico.] In Iran non abbiamo questo fenomeno. Io non so chi vi abbia detto che ci sia” (Si noti che in questo discorso Ahmadinejad ha usato il termine hamjensbaz in lingua farsi, letteralmente “frocio”, e non hamjensgara, parola più neutra, l’equivalente del termine “omosessuale”). Amir sorride, sa bene che Ahmadinejad ha torto, e per una ragione molto semplice: è iraniano e gay.
Sono nel laboratorio di un artista e Amir mi offre cachi e melograni. Ha trent’anni, indossa Ray-Ban e un orologio Swatch. È un pittore e mi ha fatto vedere i suoi dipinti, quadri figurativi che trovo piuttosto deprimenti. “Ufficialmente, l’omosessualità è proibita in Iran,” dice Amir. “In teoria, il rischio è la pena di morte, ma la polizia deve dimostrare che è stato consumato un atto sessuale, e secondo il codice penale islamico dell’Iran, ci vogliono quattro testimoni maschi affidabili che abbiano visto la scena dall’inizio alla fine e siano disposti a raccontarla davanti al tribunale. Molto spesso, gli omosessuali non vengono uccisi. Vengono perseguitati, monitorati, e vivono nascosti.”
Amir mi mostra la schiena segnata da frustate. “Sono stato punito con settantaquattro frustate quando avevo vent’anni, non perché ero gay, ma semplicemente perché avevo bevuto. Il problema non è tanto l’omosessualità in sé, ma ciò che è considerato ‘occidentale’. E se la questione gay è un tabù, è meno un tabù politico che un tabù sociale.” Amir mi è stato presentato come un gay outspoken, dichiarato. Non ha mai temuto l’ira di Dio per i suoi amori. E continua: “Non ci sono regole, nessuna norma di diritto in Iran. Questa non è solo una teocrazia, è una dittatura. È il regno dell’arbitrarietà: il governo, la polizia, la magistratura possono cambiare le regole in qualsiasi momento. È la versatilità che caratterizza il regime. Allo stesso tempo, nella maggior parte dei casi, se hai i soldi, puoi corrompere: tutto si compra in Iran. Anche il carcere può essere evitato con una bottiglia di vino. Naturalmente, essere gay è un fattore fortemente aggravante, ma ci sono tanti motivi per essere fermato. Per quello che mi riguarda, per esempio, essere gay è meno grave che essere un artista deviante”. Di norma, l’Iran condanna a morte gli omosessuali per “crimini sessuali” o “sodomia” (lavat). Ricordiamo di nuovo l’esecuzione il 19 luglio 2005 di due giovani gay, Mahmoud Asghari, sedici anni, e Ayaz Marhouni, diciotto: le fotografie, atroci, che li mostrano sul patibolo, la corda intorno al collo, poco prima di essere impiccati sulla pubblica piazza, hanno fatto il giro del mondo. Più di recente, il caso di Makwan Mouloudzadeh ha attirato una forte risposta da parte delle organizzazioni per la difesa dei diritti umani: il giovane curdo iraniano è stato impiccato nel dicembre 2007 per un atto omosessuale commesso quando aveva tredici anni ma ha sempre giurato la sua innocenza (insieme alla sua omosessualità), soprattutto in una poesia ormai famosa scritta a sua madre. […]



I nuovi compagni di Mao

Tongzhi. La parola è scritta a caratteri cubitali nei colori dell’arcobaleno sulla maglietta di Guo Ziyang. Mi traduce l’espressione, scritta in caratteri cinesi semplificati.
“Vuol dire più o meno che sono gay e che ne vado fiero. È una sorta di slang omosessuale. Ma tongzhi ha anche un altro senso, che viene dal gergo dell’Armata del popolo. Per i comunisti significa ‘compagno’ in senso fraterno.” A partire dagli anni novanta, gli omosessuali si sono appropriati della parola a Taiwan e a Hong Kong, poi il termine si è diffuso anche nel resto della Cina. “Tongzhi è ancora in qualche misura un messaggio in codice, come una strizzata d’occhio. Invece di usare parole sprezzanti o che hanno una connotazione medica come tongxinglian (omosessuale), preferiamo questa parola più positiva e fluida. La usiamo indifferentemente per i gay, le lesbiche, le trans...” Guo Ziyang ha venticinque anni, è orgoglioso della sua maglietta e promette di regalarmene una. Sulle scarpe da ginnastica modello All Star ha una bandiera americana. Sono nella sede dell’associazione Aibai, al ventesimo piano di un edificio sudicio nel quartiere di Shaoyang, a nord-est di Beijing (nuova traduzione, letterale, di Pechino). Qui si gestisce un portale web che ha il nome dell’associazione, uno dei principali siti gay in Cina. Al momento della fondazione, nel 1998, la sede legale di Aibai era negli Stati Uniti e, per maggior sicurezza, intestata a un cittadino sino-americano di Los Angeles. Oggi è stata trasferita in Cina. “Ci tollerano perché abbiamo uno scopo educativo. Non critichiamo il regime e non pubblichiamo immagini pornografiche. Il governo cinese non censura l’omosessualità: censura il proselitismo, la pornografia, i diritti umani. Perché dovrebbero censurare noi?” chiede con falsa ingenuità Huim Jiang, direttore di Aibai. Che precisa, soppesando le parole: “Il nostro obiettivo non è fare pressione sul governo, vogliamo soprattutto influenzare il grande pubblico”. Nella sala che ci ospita vedo una decina di tavolini attrezzati con una graffettatrice, forbici, nastro adesivo, colla, una calcolatrice. Servono per le sessioni di formazione, qui tutto ha un’aria pedagogica.
Alcuni attivisti, tra cui Guo Ziyang, ci raggiungono.

“Siamo in una zona grigia, non siamo né proibiti né autorizzati. Sospettati, ma tollerati. La Cina comunista ha adottato nei confronti dell’omosessualità la regola dei tre no: no all’approvazione; no alla disapprovazione; no alla promozione. Contrariamente a quanto spesso si crede in Occidente, oggi l’omosessualità è stata depenalizzata e ufficialmente non esiste alcuna legge antigay. L’omosessualità non è più vietata né consentita: per il regime semplicemente non esiste. E neanche noi esistiamo, per il regime. Ma in Cina i gay esistono eccome, sono ovunque!” […]