NON RESTARE INDIETRO - IL CAMPO – QUATTRO

Gli ultimi a scendere sono Matteo e il Gatto e la Volpe.
Dai loro occhi è sparita quell’espressione da fenomeni che avevano fino a stamattina, un po’ come Alessia e Martina, che a furia di coprirsi di arie da mi-sento-una-donna-ormai sembrano ancora più indifese, una crollata in un pianto senza fine e l’altra in una sensazione ignota di apnea. Ad Alessia è rimasta la trasparenza anche nel dolore, e intorno a Martina è sparito del tutto quell’alone di superiorità che infastidiva tanto Francesco. Ognuno dei compagni di viaggio pare essere innanzitutto di fronte a se stesso, alle sue maschere e a come se l’è sempre raccontata, almeno un po’. Ed è una cosa che lui non ha mai vissuto.
La torretta di guardia di Birkenau, quella che vedi sempre se digiti “Auschwitz” su Google Immagini, è lì davanti a loro. Qualcuno la immortala con il cellulare. Ma c’è qualcosa che non torna, perché quasi tutte le foto famose – Francesco se ne rende conto adesso – sono scattate dall’interno e non dal punto in cui si trovano loro adesso.
I binari sono nel campo. Entrano e lo trafiggono fin quasi all’orizzonte. Quando il gruppo varca la soglia passando sotto la torretta, la guida dall’interno fa cenno di raggiungerlo.
È enorme, non se ne vede la fine.
Immenso.
Una roba mai vista.
“Birkenau,” dice la guida ai ragazzi che gli si stringono intorno, “176 ettari, 20 chilometri di strade interne, 25 chilometri di filo spinato. Siamo in quello che è il più grande degli oltre quaranta campi che compongono il complesso concentrazionario di Auschwitz. Siamo in un luogo pensato da esseri umani per altri esseri umani, un luogo pensato per uccidere. Un centro di annientamento.”
Il vento picchia, e Francesco sente il freddo che gli passa dentro le ossa. D’istinto si tira il cappuccio della giacca sulla testa, come se potesse dare un attimo di tregua a tutta questa follia, proteggendosene. Poi vede una ragazza di un altro gruppo che piangendo asciuga con una manica le lacrime di una sua compagna. Si sorprende a sorridere nel luogo più simile all’inferno che gli sia mai capitato di incontrare.

 

COLONNA SONORA

Ben E. King, Stand By Me, in Dont’ Play That Song!, 1960
Che poi a volte abbiamo bisogno solo degli altri per poter entrare in contatto con noi stessi. C'è questo racconto di Stephen King che è diventato un film – Stand By Me, appunto – che per almeno due generazioni è stato un cult. È la storia di un gruppo di ragazzi che fanno dell'incontro con la morte il loro rito di passaggio, che imparano ad affrontare i propri fantasmi e a crescere, a rimbalzare alla vita. Insieme.

 

Bob Marley & The Wailers, Coming In From The Cold, in Uprising, 1980

Quando ero adolescente ho passato anni ad ascoltare solo la musica di Bob Marley. Per me in quest'album (“Uprising”) e in questa canzone che lo apre c'era e c'è tutto. C'è la voglia di vivere e quella di reagire, c'è il senso della Storia, c'è la differenza che ciascuno di noi può fare nel proprio presente. Non importa da dove veniamo, quanto dolore abbiamo alle nostre spalle. Quando una porta è chiusa, e lo dobbiamo sapere, ce ne sono sempre altre aperte. La Storia, credo, serve anche a imparare questo.

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