Il museo di un romanzo

19 Marzo 2014

Che cosa resta di un romanzo che abbiamo scritto? Un file salvato nel computer, sì, e molti appunti: quaderni fitti di idee che avremmo voluto sviluppare. Molte le abbiamo dimenticate, perse di vista, tradite. Restano frasi su post-it gialli che sembrano indicazioni geografiche a vuoto. «Esuli di Joyce va in scena la sera del 14 febbraio 1926». E allora? Allora un romanzo, qualunque romanzo, è sempre inferiore all’idea astratta che ne avevamo in partenza. Una volta pubblicato, come sapeva Henry James, si è assaliti dalla tentazione di sacrificare la prima edizione e cominciare dalla seconda: «Ah, ripartire di nuovo, avere un’occasione migliore!». Inutile quindi passarsi fra le mani queste carte cariche di promesse non mantenute, di voci bibliografiche tralasciate, di immagini buttate via: un patrimonio dilapidato. Eppure a volte, di un romanzo, resta un piccolo museo. Orhan Pamuk l’ha costruito a posteriori, a Istanbul, per una storia d’amore: Il museo dell’innocenza. Una folla di fotografie, bottiglie, sigarette, pettini, spille, orologi diventa il deposito materiale del sentimento (romanzesco) che ha legato Kemal e Füsun: quasi fossero non personaggi ma persone vere, che vivendo hanno lasciato la loro scia di oggetti.

Scrivendo Mandami tanta vita, sulle tracce di una vita inabissata nell’inverno del 1926, ho – come accade a chiunque lavori sul passato – accumulato documenti, letto libri, fatto la fila al banco delle fotocopie in biblioteca. Poi però, uscito di lì, mi dicevo: non basta. E mi ostinavo a cercare ancora: piccole librerie, bancarelle dell’usato, robivecchi, eBay – pur di sentire tra le mani l’aria di quel tempo. È una pretesa assurda, votata al fallimento, ma non ho smesso per un attimo di alimentarla, con il gusto del collezionista dilettante. Soddisfatto per un niente: la copia in buono stato della «Domenica del Corriere» uscita il 14 febbraio 1926, due giorni prima che la trama del mio romanzo si concluda. A cosa è servita, ai fini della narrazione? A nulla, ma volete mettere il piacere di avere davanti agli occhi le tavole di Beltrame? Sulla prima pagina, un uomo finito sotto un treno nel lucchese: «tutti i carri del convoglio gli passarono sopra lasciandolo tuttavia incolume». E poi le poesie sul carnevale, le novità per le acconciature («modelli parigini per la sera»), le pubblicità (il brodo Arrigoni per una minestra «appetitosa»), i consigli per sbarazzarsi di tutti i mali ai piedi.

Mi emoziona sapere che queste pagine hanno preso la luce di una domenica mattina di quasi novant’anni fa. L’idea che qualcuno le abbia sfogliate, lette davanti a un caffè. Così il passato sembra sul punto di svegliarsi e tornare, diventa uno spazio ancora abitabile. La letteratura offre questa illusione, ed è la stessa di quella cameriera che, nella Rosa purpurea del Cairo di Allen, sogna di vivere in un film in bianco e nero, o di quello scrittore in crisi che a mezzanotte incontra Hemingway e Fitzgerald, in Midnight in Paris. Gli oggetti, le cartoline, i vecchi giornali sono stati per me come quel rintocco d’orologio, come la ricetta di un incantesimo. Come la macchina del tempo. A stesura ultimata, avevo intorno un piccolo, inutile, sorprendente museo involontario. Quando avevo acquistato la riproduzione di timbri postali degli anni Venti? E quando mi ero messo in cerca di vecchie, anonime fotografie, di locandine cinematografiche, di pubblicità di grammofoni? «Possedere uno di questi strumenti significa avere tutti i più grandi artisti da Tamagno alla Patti, da Caruso a Titta Ruffo…». Grammofoni in quercia, in mogano, cinquanta modelli di strumenti da lire 500 a lire 8600, a molla o elettrici. Stampe della vecchia Torino: il manifesto dell’esposizione del 1898, con un pallone aerostatico che sale sopra la città; piazza Castello con l’insegna di un Grand Hotel, signore a passeggio e un barroccio al centro della scena; il Teatro Balbo e un capannello di gentiluomini all’ingresso. Figurine scure, indistinguibili, vite di uomini non illustri perse nel tempo. Che fine avete fatto? Possibile – come si chiedeva Benigni nella Voce della luna – che non si sappia più niente di voi?

Ho acquistato perfino fascicoli, neanche troppo economici, di una rivista illustrata americana, «Mid-Week Pictorial», anno 1925. Gossip dell’epoca, nuotatrici, principesse, corse di cavalli, acrobazie di cani. Fotografie grigioblu su una carta che si sfarina fra le mani; cruciverba a premi: con il più facile, si vincono quindici dollari. Il numero di gennaio-febbraio 1926 di «Esercito e Nazione. Rivista per l’ufficiale italiano» presenta la riproduzione di un testo autografo del Primo Ministro d’Italia Benito Mussolini sui progetti militari. L’articolo «Il Marocco nelle sue caratteristiche geografico-militari» offre anche una cartina a tre colori che segnala i limiti dell’occupazione francese e spagnola al 1° aprile 1925. Meno suggestiva una dotta analisi sul tema «Carri armati contro reticolati». Adorabile invece un numero del «Giornalino della Domenica» diretto da Vamba, con una fiaba giapponese illustrata e il Cantuccino degli enigmisti di Fra Bombarda. Mi dispiace avere trascurato, su un numero del «Mondo» dell’estate 1917, una riflessione accigliata sulle bagnanti che «si abbandonano al cosiddetto bacio dell’onda solo indossando corpetto e mutandine» e un velenoso ritratto di Amalia Guglielminetti firmato Pitigrilli.

Sono tornato anche più indietro, là dove il mio romanzo non arriva: alla settimana in cui a Torino nasceva Piero Gobetti, il protagonista di Mandami tanta vita, giugno 1901. Sull’«Illustrazione italiana» si annuncia, per il prossimo numero, uno splendido articolo di De Amicis sui lavoratori del mare nel porto di Genova. Peccato non averlo. A Roma è stato aperto da poco il nuovo Ponte Cavour; un disegno dal vero mostra senatori e deputati in visita al Re per rallegrarsi della nascita della Principessa Iolanda. Sulla copertina, fra le tante pubblicità, anche quella del Liquore Strega, ditta Alberti, casa fornitrice di Sua Maestà. Non ci avevo fatto caso.

Il mio piccolo museo involontario è tutto in una scatola di cartone. Da custode e unico visitatore, ne riconosco la stralunata e sentimentale inutilità. Eppure queste tracce tanto fragili mi sembra di averle messe in salvo, riportate a casa da un viaggio, ma nel tempo. Non è sempre questo, lo spirito del collezionista? Per tutti i giorni che ho speso a scrivere il romanzo, il calendario diceva contemporaneamente 2012 e 1926. Ero anche lì, a chiamare nomi, a sentire freddo, a mettere il naso in affari non miei. Ho sentito la mia vita dilatarsi all’indietro; rompere le leggi – almeno quelle apparenti – della fisica. Mi è sembrato lecito aspettare ciò che non può tornare, e anche chi non può tornare. Mi sono ricordato che soprattutto per questo, amo leggere romanzi.

Paolo Di Paolo

Paolo Di Paolo

Paolo Di Paolo è nato nel 1983 a Roma. Ha pubblicato i romanzi Raccontami la notte in cui sono nato (2008), Dove eravate tutti (2011; Premio Mondello e Super Premio Vittorini), Mandami tanta vita (2013; finalista …