Umberto Galimberti: Una pensione per l´anoressia

14 Maggio 2002
La Cassazione ha deciso che l´anoressia è una malattia invalidante e quindi chi ne è afflitto ha diritto a una pensione. A esser cattivi verrebbe da dire che basta dimagrire per garantirsi un futuro. Ma non è così. E a dircelo sono i numeri. Ne soffrono ottantamila italiane, e 60mila sono invece in condizioni di bulimia che è solo il rovescio della medaglia. Di queste solo il 10% chiede aiuto, ma in un modo così ambivalente e a uno stadio ormai così avanzato che l´aiuto può far davvero poco.
Nel frattempo sopraggiungono problemi gravi che, oltre alle condizioni del corpo, compromettono la vita quotidiana, le possibilità di studio e di lavoro, lo sguardo angosciato sulla vita.
I primi segnali, che un tempo si manifestavano nella pubertà (accreditando l´ipotesi psicoanalitica del rifiuto a diventar donne mature per via di un conflitto con la madre), si modificano sempre più verso il basso in età decisamente pre-puberale, o verso l´alto a 30-35 anni in piena età matura.
Questi dati ci dicono che l´ipotesi psicoanalitica, buona per le anoressie di un tempo, oggi non tiene più, o per lo meno da sola non basta. A essa va affiancata l´ipotesi sociologica che, dal sistema della moda alla pubblicità, addita nell´anoressia il modello di esser donna.
Se poi consideriamo che l´anoressia colpisce solo le ragazze dell´opulento Occidente ed è sconosciuta nel Terzo e Quarto Mondo, allora, senza vedere in questo una nemesi, non possiamo pensare che questa malattia e tutto quel background che le fa da sfondo (diete, palestre, footing, ginnastiche) sia una denuncia inespressa che il nostro modo di sovrabbondare in cibo e opulenza nasconda tra le sue pieghe il segreto della malattia, come denuncia di quel malessere di cui l´anoressia si fa testimone? Il vuoto d´anima non si riempie con il cibo.
Abbiamo perso la cultura dell´anima e abbiamo inflitto al corpo quelle che erano le sue penitenze. Non più esercizi spirituali, ma esercizi corporei, in quella sfida con la morte che è il tema generale di ogni esistenza anche di quelle che riescono a trasformare un pezzo di pane in un dannoso concentrato di zuccheri e una goccia d´olio in un irrecuperabile accumulo di grassi. I trenta chili sono il loro sogno, il «no, grazie» a ogni offerta di cibo il loro vanto. A ciò aggiungono quattro ore di corsa per perdere chili e una decina di tazzine di caffè per sostenersi almeno a livello di nervi.
Le loro labbra non si aprono più né per una forchettata di verdura, né per una parola di spiegazione. Dall´alto della loro spiritualità così raggiunta, guardano con disprezzo quelli che per loro, e questa volta con ragione, sono gli uomini che vivono solo per mangiare, dormire e fare sesso. Loro, invece, che si astengono dal cibo che serve solo a ottundere la mente, dal sonno che è solo una perdita di tempo, dal sesso che trasuda di corpo, concedono al cibo di arrivare a venti grammi al giorno nello stomaco, per raggiungere quella felicità che l´ago della bilancia indica con precisione quando precipita sempre più giù, sotto il loro peso.
Poi la grande scoperta. Forse si può mangiare senza ingrassare, basta vomitare. E allora tutto lo spazio, quello della casa e quello fuori casa, diventa una geografia dove le riserve di cibo e i luoghi per espellerlo tracciano gli itinerari in cui la vita trova il suo modo di trascorrere, non meno tragico del modo di tutti, ma più ossessivo, più assediato da quella coazione che costringe prima a vomitare quando gli altri obbligano a mangiare, e poi a vomitare quando non si resiste al desiderio di mangiare. Certo, se tutti viviamo come normalmente si vive, e moriamo come normalmente si muore, conducendo la nostra esistenza come puro transito di un quantitativo biologico, che cosa possiamo dire a quanti per un attimo, per una stagione, o anche per un´intera e breve vita non trovano senso se non a quel confine dove la vita è sempre più in gioco con la morte, per evitare che la vita stessa diventi opaca, quotidiana, devitalizzata, essa stessa morte.
Le anoressiche non vogliono né lacrime né pietà, vogliono solo rubare all´insignificanza di troppe esistenze quelle briciole di senso che, sole, evitano a ciascuno di noi di diventare una non-risposta a noi stessi e a tutte le domande che, incessanti ci giungono da questo mondo, così ricco di cibo e di cose, che troppo contrasta con il resto del mondo, dove l´anoressia non è una scelta, ma una condizione immodificabile d´esistenza.
Se diamo credito all´inconscio collettivo vien da pensare che, al di là delle nostre riflessioni, sia il nostro corpo (nella forma della anoressia o della bulimia che sono poi la stessa cosa) a diventare «sintomo» per dirci che produrre per consumare e consumare per produrre (metafora della fisiologia del nostro corpo) non è forse l´ideale più alto della vita, o per lo meno qualcosa che giustifichi il senso del nostro esistere.
E allora l´anoressia non è solo una malattia da soccorrere con una pensione, che resta comunque benvenuta, ma è soprattutto un richiamo allo stile di vita di noi occidentali che più non sappiamo come riempire la minaccia sempre incombente di un vuoto di senso se non annegando l´angoscia nel cibo, nello shopping compulsivo, nella sovrabbondanza nauseante della disponibilità delle cose.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …