Umberto Galimberti: La paura di donare

10 Luglio 2002
Nella pratica dei trapianti la scienza medica ha raggiunto livelli di soddisfacente affidabilità, grazie ai quali oggi molte persone (in Italia 2700 nel 2001, contro i 1100 del 1995) possono tornare a esistere come corpi viventi e non più come organismi assistiti, quando non definitivamente spacciati. Ma contro i 2700 che hanno potuto beneficiare di un trapianto lo scorso anno, ben 8800 erano iscritti nelle liste d´attesa, e per molti di loro il tempo s´è fatto troppo lungo perché una legittima e drammatica speranza potesse trovare esaudimento. E allora due cose sono da fare subito.

La prima è di potenziare significativamente (e non di diminuire come questo governo sta facendo) i fondi destinati alla ricerca scientifica di base, le cui scarse disponibilità, come non manca di ricordarci in ogni suo intervento il professor Dulbecco, sono la causa prima della fuga dei cervelli, nonché della nostra dipendenza dall´estero in materia di sanità. La seconda è di socializzare il più possibile la donazione degli organi senza i quali la tecnica dei trapianti resta una possibilità limitata a pochi, e quindi la causa diretta di quella situazione aberrante che è il mercato degli organi. 
La socializzazione della donazione degli organi incontra difficoltà psicologiche che si lasciano riassumere in questa frase che spesso ci si sente dire quando si interroga qualcuno sull´argomento: «Quando sono morto facciano di me quel che vogliono, ma non me lo chiedano quando sono vivo». E´ un´obiezione che, nella sua semplicità, ha il suo rilievo e che, pur ignorando le pagine che Husserl, Sartre, Merleau-Ponty hanno dedicato all´argomento, marcano la differenza tra il «corpo» che la mia esistenza vive e l´«organismo» che la scienza medica descrive.
Lo sguardo infatti che la scienza medica ha del corpo umano non si solleva di un palmo dall´anatomia da cui questa scienza è nata, e «ana-temnein» in greco significa appunto «tagliare», «fare a pezzi». E´ evidente che ciascuno di noi, a livello psicologico, rifiuta di pensare il proprio corpo come la scienza richiede, ossia come una sommatoria di pezzi accostati, intercambiabili, buoni per tutti.
Questa mentalità che riduce il «mio corpo» a «generico organismo», che toglie alla mia corporeità quella sfera di appartenenza così intima, per cui nessuno di noi dice «ho un corpo stanco», ma semplicemente «sono stanco», perché ciascuno di noi coincide con il proprio corpo, che lo stesso Tommaso d´Aquino indicava come «principio di individuazione», ebbene questa mentalità, che la medicina a sua insaputa diffonde, è devastante per la nozione di individuo, per non parlare dei processi psichici di individuazione che vengono semplicemente azzerati più si mortifica la nozione di «individuo» a tutto vantaggio di quella di «organismo generico» .
Di qui l´obiezione: «Quando sono morto facciano di me quello che vogliono, ma da vivo non me lo chiedano». Non è un atto di egoismo. Piuttosto segna lo scarto tra la percezione che da vivo ho del mio corpo e la concezione che la scienza medica, per le sue legittime e inderogabili esigenze di metodo, ha del corpo di chiunque come pura sommatoria di organi. Questa distanza tra la concezione scientifica del corpo come organismo e l´esperienza vissuta che ciascuno di noi ha del proprio corpo va ridotta da un lato attraverso pratiche di umanizzazione della medicina, dall´altro da una rivisitazione da parte di tutti noi della sacralità del nostro corpo che dipende dal fatto che, anima sì anima no, tutti pensiamo che nel corpo risieda l´essenza tout court della nostra vita.
Sotto il rifiuto alla donazione degli organi c´è il rifiuto di pensare la propria morte e quindi la nostra condizione di «mortali», per effetto della quale, dobbiamo convincerci, non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché fondamentalmente dobbiamo morire. La scienza medica, nella sua visione cinica del corpo, può educarci e indurci a pensare la nostra morte come un dono per altri e spingere il principio di solidarietà oltre i confini della vita.
E questo non tanto per prolungare di due o tre anni la vita di un altro, ma per cambiare la qualità della vita di molti. Penso ai giovani affetti da infezioni virali che possono danneggiare il pancreas, obbligando per una vita a tre o quattro punture di insulina al giorno. Penso alla dialisi che obbliga tre volte alla settimana gli ammalati di reni a sei ore di trattamenti in ospedale, penso ai ciechi, che potrebbero vedere con un trapianto di cornea. Penso non tanto al prolungamento della vita di qualcuno più fortunato o più ricco di un altro, quanto alla qualità della vita di molti che vivrebbero comunque, ma con una limitazione radicale della loro libertà.
E allora è vero che la nostra psiche rifiuta la donazione degli organi, perché fondamentalmente rifiuta la riduzione che la scienza fa del nostro corpo a pura sommatoria di organi. Ma quel che perdiamo dal punto di vista del vissuto emozionale lo possiamo recuperare con un vissuto di solidarietà. E allora le esigenze dello spirito, giustamente negletto dalla visione «scientifica» del nostro corpo, con la donazione degli organi possono risorgere in versione meno egoista, e ricordarci, proprio là ai confini della vita, che l´uomo è animale sociale, dove il «sociale» non è un´aggiunta o un optional, come una tendenza diffusa del nostro tempo vorrebbe far credere, ma il costitutivo della natura umana, che solo per questo e non per altro si distingue da quella animale.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …