Umberto Galimberti: Il mercato dell’intimità

27 Agosto 2002
Conformismo e consumismo hanno messo in circolazione un nuovo vizio che per comodità chiamiamo "spudoratezza", con riferimento non tanto a uno scenario sessuale, quanto al crollo di quelle pareti che consentono di distinguere l’interiorità dall’esteriorità, la parte "discreta", "singolare", "privata", "intima" di ciascuno di noi dalla sua esposizione e pubblicizzazione. Se chiamiamo "intimo" ciò che si nega all’estraneo per concederlo a chi si vuol fare entrare nel proprio segreto profondo e spesso ignoto a noi stessi, allora il pudore, che difende la nostra intimità, difende la nostra libertà. E la difende in quel nucleo dove la nostra identità personale decide che relazione instaurare con l’altro. Il pudore allora non è una faccenda di vesti, sottovesti o intimo abbigliamento, ma una sorta di vigilanza per mantenere la propria soggettività, in modo da essere segretamente se stessi in presenza degli altri.
Ma contro tutto ciò soffia il vento del nostro tempo che vuole la "pubblicizzazione del privato", perché in una società consumista, dove le merci per essere prese in considerazione devono essere pubblicizzate, si propaga un costume che contagia anche il comportamento degli uomini, i quali hanno la sensazione di esistere solo se si mettono in mostra, per cui, tra uomini e merci, il mondo è diventato una "mostra", un’esposizione pubblicitaria che è impossibile non vistare perché comunque ci siamo dentro.
Siamo diventati tutti "esposti", la nostra identità è ormai fuori di noi, è laggiù, in ciò che si dice di noi. Là si raccoglie credibilità e fiducia, accesso al credito e all’iniziativa. Dobbiamo costruirci ogni giorno una faccia con cento lingue e mille parole per poter abitare tutte le situazioni che il mondo pubblico ci ha preparato. Chi infatti non irradia una forza di esibizione e di attrazione più intensa degli altri, chi non si mette in mostra e non è irraggiato dalla luce della pubblicità non ha la forza di sollecitarci, di lui neppure ci accorgiamo, il suo richiamo non lo avvertiamo, non ce ne lasciamo coinvolgere, non lo riconosciamo, non lo usiamo, non lo consumiamo, al limite "non c’è".
Per esserci bisogna dunque apparire. E chi non ha nulla da mettere in mostra, non una merce, non un corpo, non un’abilità, non un messaggio, pur di apparire e uscire dall’anonimato, mette in mostra la propria interiorità dove è custodita quella riserva di sensazioni, sentimenti, significati "propri" che resistono all’omologazione, che nelle nostre società di massa è ciò a cui il potere tende per una più comoda gestione degli individui. Allo scopo vengono solitamente impiegati i mezzi di comunicazione che, dalla televisione ai giornali, con sempre più insistenza irrompono con "indiscrezione" nella parte "discreta" dell’individuo per ottenere non solo attraverso test, questionari, campionature, statistiche, sondaggi d’opinione, indagini di mercato, ma anche e soprattutto con intime confessioni, emozioni in diretta, storie d’amore, trivellazioni di vite private, che sia lo stesso individuo a consegnare la sua interiorità, la sua parte discreta, rendendo pubblici i suoi sentimenti, le sue emozioni, le sue sensazioni, secondo quei tracciati di "spudoratezza" che vengono acclamati come espressioni di "sincerità", perché in fondo: "Non si ha nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi".
A parte che "vergognarsi" è un verbo riflessivo che dunque rinvia a una riflessione, a una relazione con se stessi di cui non è proprio il caso di vergognarsi, c’è da notare anche che è un verbo che dice la nostra "esposizione agli altri". "Vergogna" viene infatti da "vereor gognam" che significa "temo la gogna, la mia esposizione pubblica". E questa è la ragione per cui solitamente non ci si vergogna della colpa, ma della nostra esposizione agli altri che il nostro pudore avverte più disdicevole della colpa. Quando dico: "Non ho nulla di cui vergognarmi" non sto dicendo solo: "Non mi vergogno, quindi non sono colpevole", ma anche: "Non mi vergogno, quindi non temo l’esposizione agli altri. Ho oltrepassato quello che per chiunque sarebbe il pudore e ho fatto della spudoratezza non solo la mia virtù, ma la prova della mia sincerità e della mia innocenza". I tracciati profondi dell’anima, in cui ciascuno dovrebbe riconoscere le radici profonde di se stesso, una volta immessi "senza pudore" nel circuito della pubblicizzazione, quando non addirittura in quello della pubblicità, non sono più propriamente "miei", ma "proprietà comune", e questo sia in ordine alla qualità del vissuto, sia in ordine al modo di viverlo, perché il pudore, prima di una faccenda di mutande che uno può cavarsi o infilarsi quando vuole, è una faccenda d’anima che, una volta depsicologizzata perché si sono fatte cadere le pareti che difendono il dentro dal fuori, l’interiorità dall’esteriorità, non esiste semplicemente più. A questo punto si potrebbe obiettare che siccome il male avviene di solito segretamente, "segretezza" e "riservatezza" sono per l’opinione pubblica prove del male.
E allora, per smentire l’opinione pubblica, omologata su questo pregiudizio, non resta che la spudoratezza di chi si tiene sempre pronto, "mani alla chiusura lampo", per interviste, pubbliche confessioni, rivelazioni dell’intimità, come è facile vedere in numerose trasmissioni televisive particolarmente seguite, dove l’invito è a collaborare attivamente e con gioia alla propria deprivatizzazione. Quanti sono interessati a che l’individuo non abbia più segreti e al limite neppure più un’interiorità, perché le pareti della casa di psiche sono crollate, alimentano il proliferare incontrollato di queste trasmissioni che, a livello subliminale, fanno passare la persuasione che la spudoratezza è una virtù: la virtù della sincerità. Per quanto la cosa possa apparire strana, la sua realizzazione nella nostra società è già in corso e il processo di eliminazione del pudore è quasi completo perché il pudore può essere non solo sintomo di "insincerità", ma addirittura, e qui anche gli psicologi danno una mano, di "introversione", di "chiusura in se stessi", quindi di inibizione se non di repressione. E inibizione e repressione, recitano i manuali di psicologia, sono sintomi di un "adattamento sociale frustrato", quindi di una socializzazione fallita. Vedete dove si può arrivare avviando una sequenza un po' disinvolta di sillogismi? Ma purtroppo la sequenza è avviata e la nostra vita è diventata proprietà comune.
E allora perché non lasciarsi intervistare senza riserva e senza pudore? In fondo anche il nostro corpo è diventato proprietà comune, e quel che un tempo era prerogativa di alcune dive, farsi misurare seni e sederi e pubblicare le relative cifre sotto la fotografia, oggi è il gioco di qualsiasi ragazza che non vuol passar per inibita. Ma anche il sesso è diventato proprietà comune e, dalla stampa alla televisione, è un susseguirsi di articoli e servizi sui piaceri e sulle difficoltà della camera da letto, redatti sotto forma di consigli, in modo confidenziale, come se fossero rivolti solo a te e non a un milione di orecchie. Questo significa "non aver nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi". Significa che le istanze del conformismo e dell’omologazione lavorano per portare alla luce ogni segreto, per rendere visibile ciascuno a ciascuno, per toglier di mezzo ogni interiorità come un impedimento, ogni riservatezza come un tradimento, per apprezzare ogni volontaria esibizione di sé come fatto di lealtà se non addirittura di salute psichica. E tutto ciò, anche se non ci pensiamo, approda a un solo effetto: attuare l’"omologazione della società" fin nell’intimità dei singoli individui e portare a compimento il conformismo. In fondo non è un’operazione difficile. Basta "non aver nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi", che tradotto significa: "Sono completamente esposto", "non custodisco nulla di intimo", "sono del tutto depsicologizzato", ma in compenso ho guadagnato appariscenza, conformità sociale e forse qualche apprezzamento per il mio coraggio e la mia sincerità.
A questo punto scopriamo che di intimo c’è rimasto solo il dolore, la malattia, la povertà che ciascuno di noi cerca di nascondere per non essere trascurato dagli altri, da loro tralasciato. E così proprio ciò che avrebbe massimamente bisogno di comunicazione (il dolore, la malattia, la povertà) resta chiuso nel segreto della solitudine dove nessuna voce giunge a diluire quel che la solitudine rende insopportabile. E poi ci si meraviglia del numero sempre più impressionante di suicidi, quando una voce inespressa decide di tacere per sempre. Qui inquietante non è il suicidio, ma la nostra meraviglia. Abbiamo capovolto il senso del pudore a cui abbiamo dato da custodire non più la nostra "intimità", in cui si radica la nostra identità personale e la nostra libertà, ma il fondo opaco e buio del nostro "dolore", reso addirittura inespressivo per l’impossibilità di comunicarlo. In questo caso non c’è né conformismo né omologazione, ma la difesa ostinata di un silenzio per non privarsi almeno di quelle conversazioni insincere, che del dolore, della malattia, della povertà non vogliono saper nulla, ma proprio nulla.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …