Marco D'Eramo: La strategia della diversione

09 Settembre 2002
Il muscoloso ragazzo bianco pedala con forza sull'Ottava Avenue trainando il risciò su cui siede un grassoccio attempato cinese. Sembra una nemesi della storia che capovolge le ottocentesche immagini coloniali, quando a Canton magri cinesi portavano a spasso opimi bianchi. Eppure è uno spettacolo sempre più frequente nel cuore dell'impero mondiale, nella cosiddetta Grande Mela che in questo è bacata. Il giovane forzuto americano, anellino al naso, che si guadagna da vivere trasportando con la sua forza propri concittadini, ti ricorda che l'incensata New Economy è in gran parte puro lavoro servile: quale altro vantaggio ha il laudatissimo B-to-C (Business-to Consumer), il commercio via internet, se non la consegna a domicilio, cioè un'illimitata disponibilità di fattorini e galoppini a buon mercato?
Nelle città americane i pony-express si spostano non in motorino - come da noi -, ma in bicicletta. Casco e mascherina antismog, per lo più neri in una gioventù senza futuro, li vedi guizzare nel traffico, perché il loro guadagno dipende da quante consegne fanno.
Una paga sempre più precaria, perché la crisi economica picchia duro. Ogni due mesi il governatore della Federal Reserve, Alan Greenspan annuncia che la crisi è finita, che la ripresa è cominciata, ma un mese dopo viene smentito da un nuovo tonfo della fiducia e della Borsa. "Non se ne vede l'uscita" mi dicono alla confederazione sindacale Afl-Cio, "abbiamo milioni di lavoratori licenziati, e centinaia di migliaia che hanno perso tutte le loro pensioni". A New York le entrate del turismo sono in calo (e il turismo procura più introiti che Wall Street). Aumentano i senzatetto. E la passata giunta di Rudolph Giuliani, "l'eroe" dell'11 settembre, aveva chiuso i rifugi, tanto che un giudice ha dovuto vietare al comune di usare le prigioni come asilo: e l'inverno deve ancora arrivare. Sono tornati in massa i mendicanti che Giuliani aveva espulso da Manhattan.

Ma mendicanti e senza tetto sono solo l'aspetto più vistoso di una silenziosa tragedia che colpisce classi medie, ceti agiati, professionisti. Le agenzie pubblicitarie sono il miglior termometro della vitalità economica: la réclame è la prima spesa che un'azienda in crisi taglia: e la città è piena di creativi che non vedono un contratto da mesi, che ormai non pagano più affitto e bollette.
"Dopo dieci anni di crescita e di bolla speculativa, questa è la prima recessione ed il primo crollo in borsa che colpisce un'America in cui più del 50% delle famiglie ha investito in azioni i propri risparmi" mi dice John Cavanagh, condirettore dell'Institute for Policy Studies. "Sono 140 milioni di americani che vedono svanire in fumo i propri risparmi bruciati dai crolli di Wall street. Nel 2000, all'apice della bolla, il Nasdaq - l'indice dei titoli tecnologici, quelli della New Economy - aveva sfondato quota 5.000. Ora siamo a 1.200. E poi c'è l'enorme scandalo delle corporations, che ha minato la fiducia degli americani nell'economia dell'impresa".
Qui Cavanagh tocca un tasto dolente di cui in Europa non si percepisce la gravità. Non abbiamo idea di quanto la trentennale campagna reaganiana e liberista dei Chicago boys avesse convinto gli americani. Qui le pubblicità recitano in tv un gioioso "Io credo nel mercato". I dipendenti sono stati convinti che loro e i dirigenti facevano parte della stessa squadra, che giocavano insieme per vincere la partita, che la prosperità dell'impresa era interesse comune. Le stock options - le opzioni di prelievo delle azioni - come parte dello stipendio erano non solo una pratica, ma un'ideologia.
Ora si accorgono che manager e amministratori delegati non erano i capitani della squadra, ma una banda di scippatori che hanno rapinato la diligenza prima di scenderne (quando hanno fatto a tempo). Se nel 1982 il rapporto tra lo stipendio medio dei dipendenti e quello dei dirigenti era di 41 volte (se il dipendente guadagnava 3.000 dollari al mese, il dirigente ne prendeva 123.000), nel 2001 l'amministratore delegato guadagnava in media 411 volte più del dipendente (un milione 233.000 dollari al mese contro 3.000). Questi dirigenti cucinavano i libri contabili per gonfiare il valore delle azioni della propria dita e quindi guadagnare esercitando la propria opzione sulle stesse azioni. È ironico che il nostro Silvio Berlusconi abbia fatto passare una legge che di fatto depenalizza il falso in bilancio, proprio quando il suo mentore George W. Bush è nella bufera per i bilanci truccati delle corporations.
Il grande pubblico scopre che coloro che gli venivano indicati come eroi della nuova epoca, titani in grado di creare immense fortune, alchimisti che trasformavano in oro anche la carta straccia, ebbene questi condottieri di ditte e di anime, rubavano e mentivano, in un paese dove mentire su un reato è considerato infinitamente più grave del reato stesso.
Esemplare è il caso di Dennis Kozlowski, ex amministratore delegato della Tyco, un tempo osannato per aver aumentato di 37 miliardi di dollari il valore azionario della sua impresa, oggi licenziato e incriminato per evasione fiscale. Tra il 1998 e il 2001 Kozloski ricevette quasi 400 milioni di dollari in stipendio e in stock options, oltre a 135 milioni di dollari in note spese: nel 1998 Kozlowski si è comprato una villa da 1.400 mq in riva al mare in Florida, facendosi prestare 19 milioni a tasso zero dalla Tyco che poi gli condonò il debito. L'estate scorsa Kozlowsi ha fatto un viaggio in Sardegna che è costato alla Tyco 2,1 milioni di dollari (4,2 miliardi delle vecchie lire). La Tyco ha prestato a Kozlowski 25 milioni per comprare un appartamento a New York e arredarlo con rubinetterie d'oro, e poi gli ha condonato il prestito. Nel frattempo la Tyco perdeva il 77% del valore azionario e dal gennaio 1991 ha licenziato 18.400 dipendenti.
La storia di Kozlowski non è isolata: tra il 1999 e il 2001 il presidente della Enron, K. L. Wise, ha incassato 251 milioni di dollari: la sua ditta è fallita, bruciando 62 miliardi di capitale e licenziando 4.250 dipendenti. A Qwest, l'amministratore delegato J. P. Nacchio ha ricevuto 266 milioni di dollari, ha bruciato capitale per 66 miliardi di dollari (pari al 97% del valore iniziale) e ha provocato il licenziamento di 11.400 persone. Ma la lista è lunga.
È un crollo totale di fiducia che incide nel profondo: è come perdere la fede, trovarsi senza certezze né punti di riferimento.
A gestire questo disorientamento è chiamata l'amministrazione più legata alle corporations nella storia americana. Lo stesso Bush jr. è stato petroliere (di scarso successo) e proprietario di una squadra di serie A di baseball, i Texas Rangers, la cui vendita gli procurò 17 milioni di dollari e la tranquillità economica. Il vicepresidente Dick Cheney è stato amministratore delegato della ditta di strumentazione petrolifera Halliburton ed è sospettato di aver cucinato i libri (contabili); il segretario del tesoro Paul O'Neill era amministratore delegato dell'Alcoa, il gigante dell'alluminio. Il segretario al commercio Donald Evans dirigeva una compagnia petrolifera. Il capo dell'ufficio del bilancio era vicepresidente della farmaceutica Elil Lilly. Il segretario dell'esercito Thomas White era il caponegoziatore della Enron. Il segretario all'aviazione James Roche viene dall'industria bellica Northrup Grumman. Il segretario della marina viene dalla General Dynamics.
Perciò lo scandalo rischia di trascinare nel baratro Bush e tutti i suoi ministri. Dice Joel Bleifuss, direttore del quindicinale In These Times: "Bush ci tiene tanto alla guerra in Iraq per mantenere alta la tensione, non far scemare il clima bellico, ma soprattutto perché permette di dirottare l'attenzione del pubblico dai guai interni. L'Iraq è una grande manovra diversiva. Soprattutto adesso che si avvicinano le elezioni e i democratici hanno buone probabilità di riprendere il controllo della camera e di rafforzare la maggioranza (ora di 51 a 49) al senato".
Tutti i miei interlocutori concordano su questa vera e propria "strategia della diversione". "Le obiezioni contro la guerra vengono solo dai repubblicani, per lo più appartenenti al clan di Bush padre" mi dice il consulente politico Robert Borosage. "I democratici stanno zitti, anzi si guardano ben dal parlare, perché in tutti i sondaggi i repubblicani sopravanzano del 25-30% su tutti i temi che riguardano la sicurezza interna e nazionale; mentre i democratici hanno un vantaggio di 25 punti su tutti i temi sociali, scuola, pensioni, salute".
Dello stesso avviso è Jim Weinstein a Chicago: "È probabile che i democratici vinceranno le elezioni nonostante il loro silenzio, o forse proprio grazie al loro silenzio. Adesso stanno zitti perché il "gruppo parlamentare progressista" è composto esclusivamente da deputati (75), e però alla Camera i democratici sono in minoranza; il calendario parlamentare e la presidenza delle commissioni, tutto è in mano ai repubblicani, e qualunque iniziativa dei progressisti verrebbe neutralizzata. Ma lasciali vincere alla camera e vedrai se si rimettono a parlare.".
"Il problema però per Bush è il tempo" mi dice quella grande signora della sinistra americana che è Frances Fox-Piven, seduta nel salotto sovrastante il campus della Columbia University, mentre una gatta soriana reclama il diritto all'attenzione strofinandosi contro i polpacci. "Non può fare la guerra troppo prima delle elezioni presidenziali del 2004, ma neanche troppo a ridosso, perché non ne trarrebbe i vantaggi. Suo padre vinse la guerra nel febbraio 1991 e perse le elezioni nel novembre 2002. Perciò per il giovane Bush, la data ottimale si situerebbe intorno a gennaio del 2004, ma allora il problema diventa per lui come mantenere alta la tensione per un anno e mezzo. Noi obiettiamo che la guerra all'Iraq accrescerà, e non diminuirà i rischi di attacchi terroristici. Ma forse per Bush questa è una ragione in più, non in meno, di minacciare ad alta voce l'attacco all'Iraq".
Non tutti concordano con l'analisi temporale di Fox-Piven. Per Weinstein una guerra all'Iraq diventa sempre meno probabile, perché c'è sempre meno mobilitazione nell'opinione pubblica: "La gente meno politicizzata che conosco sono i miei compagni di tavolo al poker settimanale, professionisti, liberal-conservatori, del tutto apolitici. A costoro la guerra non interessa affatto".
Di diverso avviso Marcus Raskin e John Cavanagh. Secondo loro "Bush otterrà facilmente l'appoggio del congresso. E deve farlo prima delle elezioni di novembre, perché altrimenti i senatori democratici approveranno la guerra ma con pastoie tanto strette da imprigionarlo. Poi ci vorranno tre o quattro mesi per ottenere l'approvazione, niente affatto scontata, dal consiglio di sicurezza delle Nazioni unite. Se ne parla a gennaio o febbraio".
Quello che sfugge è la logica profonda, la strategia a lungo termine che presiede alla smania d'invadere l'Iraq. Certo c'è la volontà di asserire il diritto imperiale di attaccare a piacimento, chiunque e in qualunque momento. "Ma c'è una dimensione molto più personale" dice Robert Borosage. "Tutta la politica del giovane Bush è definita posizionandosi rispetto a quella paterna. Tutto quello che fa è in riferimento al padre, a non ripetere la sua sconfitta. Bush jr. si definisce sia in politica estera, sia in politica interna cercando di non commettere gli errori che secondo lui il padre commise, tra cui quello di non aver eliminato Saddam. Questo spiega il suo accanimento. In realtà l'unica spiegazione razionale di tutte queste minacce è spingere i generali iracheni a uccidere Saddam per evitare l'invasione americana. Tutto quello che Washington può sperare è che Saddam sia ucciso da un altro Saddam che però non sia lui: che sia un generale, per controllare l'esercito, che sia un dittatore perché la democrazia porterebbe al potere i fondamentalisti, che sia un laico. Insomma, uccidere Saddam Hussein perché al suo posto salga un altro Saddam".

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …