Marco D'Eramo: Principi di guerra

09 Settembre 2002
Il patriottismo è l'ultimo rifugio dei mascalzoni. Mai questa massima anglosassone risuonerà più vera di mercoledì, quando Bush parlerà nell'anniversario dell'11 settembre. La Casa bianca promette che allora il presidente darà all'America e al mondo convincenti ragioni per invadere l'Iraq. Perché finora non sono affatto convinti né Vladimir Putin né Jang Zemin né Gerhard Schröder né Jaques Chirac: il che rende per lo meno problematico un avallo della guerra da parte del Consiglio di sicurezza dell'Onu.
Ma Bush non ha convinto neanche i suoi protégés arabi, tutti contrari. Obiettano perfino Turchia, Qatar e financo Kuwait, paesi da cui dovrebbe partire l'assalto. Accanto a Bush restano incrollabili solo Ariel Sharon (chi potrebbe dubitarne? tra militaristi si capiscono) e Tony Blair. Ma anche il premier inglese insiste perché gli Stati uniti provino a tutti i costi a rattoppare un'alleanza malconcia. Per l'appoggio a Bush, Blair sta però pagando un salato prezzo politico sul fronte interno: 100 deputati laburisti hanno firmato una lettera contro la guerra in Iraq. La chiesa anglicana è contraria. Nello suo governo alcuni ministri minacciano le dimissioni in caso di guerra.
La stessa opinione pubblica americana sembra indifferente, demotivata, non convinta del proprio buon diritto a intervenire, come invece era stata per le operazioni in Bosnia e in Kosovo e anche nella prima Guerra del Golfo. Qui non c'è provocazione da parte di Saddam. Nessuno ha provato collegamenti tra l'Iraq e al Qaeda. Non si capisce perché proprio ora, e non cinque anni fa o fra tre anni. Se anche Baghdad possedesse armi chimiche e batteriologiche, non si capisce come minaccerebbe gli Stati uniti: gliele manda per posta? le fa consegnare dall'Ups? L'opinione pubblica americana è giunta a pensare che la guerra in Iraq riguardi i rapporti tra padre e figlio, come una faccenda edipica, con il figlio debole ed ex alcolizzato che dimostra al padre di riuscire là dove lui ha fallito: cacciare Saddam. Certo è che i più stretti collaboratori di Bush senior, da Brent Scowcroft a James Baker, a Larry Eagleburger, hanno tutti espresso pubbliche obiezioni all'attacco contro l'Iraq.
Quel che è peggio, gli stessi generali americani hanno più volte lasciato filtrare indiscrezioni sulle loro perplessità, non per la guerra, ma per la pace e il dopoguerra: quale è l'obiettivo politico degli Usa, una volta rovesciato (e ucciso) Saddam Hussein? Come evitare una jugoslavizzazione dell'Iraq, uno smembramento tra maggioranza sciita (oggi dominata), minoranza sunnita (oggi al potere) e autonomisti kurdi? Chi mettere al potere al posto suo? Un altro generale, un nuovo Saddam che però non sia Saddam? E come evitare ripercussioni a catena in tutta la regione? E come evitare che l'invasione scateni una nuova ondata terroristica negli Usa? E' restio persino il segretario di stato Colin Powell, che però alla fine ubbidirà e piegherà il capo.
Ma i falchi, dal vicepresidente Dick Cheney al ministro della difesa Donald Rumsfeld, se ne fregano. Tirano dritti perché la guerra in Iraq è l'unico modo per evitare che lo scandalo finanziario colpisca la Casa bianca e che lo stesso Cheney sia incriminato. Guerrafondano perché è l'unica via per contenere i danni nelle prossime elezioni di mezzo termine a novembre.
Ma la guerra in Iraq è qualcosa di più, è un'affermazione di principio. Del nuovo principio imperiale emerso dalle macerie del World trade center, del diritto cioè americano all'invasione unilaterale, arbitraria, anche se non provocata. Come ha detto la consigliera alla sicurezza nazionale Condoleezza Rice: "L'11 settembre costituisce una straordinaria opportunità per gli Stati uniti" per ridisegnare il mondo. Sono i dividendi della paura, baby.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …