Marco D'Eramo: Le fanfare e il silenzio

12 Settembre 2002
Le campane hanno suonato, i tamburi rullato. Le candele sono state bruciate, gli inni intonati. Il Requiem di Mozart è stato suonato in 140 località del pianeta, dalla Nuova Zelanda, alla Thailandia al Canada, nello stesso momento corrispondente alle 8 e 46 del mattino ora di New York: il minuto in cui il primo reattore colpì il World Trade Center un anno fa. E il vicepresidente Cheney è stato nascosto in un rifugio sicuro, a causa dell'allarme attentato, mentre il presidente Bush parlava della guerra al terrorismo davanti al Pentagono: evidentemente il giovane Bush è considerato spendibile, mentre Cheney va salvato a tutti i costi. È sembrato persino strumentale, un po' troppo opportuno l'"alto allarme", livello arancione (la scala va da verde a giallo, ad arancione a rosso) dichiarato martedì da Bush e dal ministro della giustizia John Ashcroft. La maggioranza degli americani ha accolto con scetticismo quest'ennesimo, e provvidenziale, allarme di attentato: tra martedì e ieri si sono svolte 50 primarie negli Stati uniti, per scegliere i candidati alle elezioni novembrine di mezzo termine. Con l'allarme bomba la Casa bianca è intervenuta perciò in modo pesante sulla campagna elettorale. Ma l'alzata di spalle con cui è stato accolto ha spinto ieri le autorità a informare gli americani che la soffiata su possibili attentati è venuta "dal kuwaitiano Omar al-Faruq, membro della Jemaah Islamiyah, arrestato due mesi fa in Indonesia, consegnato settimane fa agli Stati uniti e detenuto in una località che non si trova negli Usa e non è Guantanamo". È confermata così la notizia pubblicata tempo fa dalla stampa secondo cui gli americani stanno portando prigionieri in stati in cui la tortura è legale. Ma non si capisce come un elemento arrestato due mesi fa possa essere al corrente dei piani per ieri. E poi al Faruq è spuntato fuori proprio al momento giusto.
L'interminabile anniversario è andato avanti così tra commozioni reali, prevedibili eventi mediatici, situazioni persino comiche, e una serpeggiante stanchezza, una speranza di vedere presto domani. Molti hanno citato la canzone di Janis Joplin: "Domani è un altro anno". I cortei sono partiti prima dell'alba dalle cinque circoscrizioni della città di New York (Bronx, Brooklyn, Manhattan, Queens, Staten Island) per convergere nell'ora fatale a Ground zero, l'area dove sorgevano i grattacieli gemelli. Lì c'è stata la lunghissima lettura dei 2.801 morti accertati del World Trade Center. Il conto dei morti è d'altronde uno degli aspetti più inspiegabili della tragedia. È comprensibile che subito dopo l'attacco fosse ventilata la cifra di 50.000 morti, che l'indomani si parlasse di 7.000 morti. Meno chiaro è come mai il 26 ottobre, cioè un mese e mezzo dopo, le autorità parlassero ancora di 4.167 morti, mentre il New York Times pubblicava un suo conteggio, più veritiero, di 2.950 morti. Ma addirittura misterioso è come mai, un anno dopo la tragedia, nell'ultima settimana il conteggio sia ulteriormente diminuito di 17 unità rispetto al precedente bilancio di 2.818 morti. E di questi 2801, 75 sono scomparsi, quindi il bilancio potrebbe calare ancora. Con la passione che gli americani hanno per i numeri, un tale pressapochismo lascia perplessi.
Minuti di silenzio hanno scandito la vita degli americani dai paesetti alle metropoli. E forse il "tacere insieme" ha costituito la forma più alta e più vera di lutto.
Il problema con quest'anniversario è che la copertura mediatica è stata talmente soffocante per tutti i 364 giorni trascorsi dall'11 settembre 2001, che diventava quasi impossibile fare qualcosa di più nel 365-esimo giorno. Lo si è visto dalle tv, ma anche dai giornali, i cui numeri speciali aggiungono davvero poco. Ieri il sito web della Cnn chiedeva come sondaggio del giorno: "L'11 settembre deve essere o no dichiarato festa nazionale"? Ma l'idea è impraticabile: è troppo a ridosso del Labor Day (primo lunedì di settembre) e, a New York, di una festività ebraica (gli insegnanti newyorkesi, anche quelli cristiani, sono riusciti a conquistarsi un giorno di ferie in occasione delle feste israelite),
C'è un sentimento di ridondanza che ammanta celebrazioni, lacrime e Dio benedici l'America. Tutto sembra rituale, quando non è vera e propria "industria del 9/11". Alternative al Requiem di Mozart sono stati i Requiem di Giuseppe Verdi e Johannes Brahms. Cantanti si sono esibiti. Scrittori hanno letto brani. Per esempio Paul Auster, Vivian Gornick, John Guare e Art Spiegelman hanno letto ieri pomeriggio testi dall'antologia 110 Stories: New York Writes After Sept. 11 (New York University Press). Le gallerie newyorkesi espongono mostre sul 9/11 e alla Town Hall si è conclusa ieri una maratona teatrale, durata tre giorni, recitata da 70 attori e intitolata Brave New World, come il romanzo di Aldous Huxley.
Significative, nella loro assoluta prevedibilità, sono le pagine intere di pubblicità apparse sul numero speciale di ieri del New York Times. Sotto un pezzo di bandiera americana, con qualche striscia e qualche stella, Cusham & Wakefield scrive in caratteri piccoli: "In ricordo e con risolutezza". Sullo sfondo scuro di una gigantesca foto di Central Station, Ilovenewyork cita una frase di Thomas Wolfe: "Non c'è nessun altro posto come questo. Nessun posto con un atomo della sua gloria, fierezza ed esultanza". Su una pagina bianca Aon scrive in piccolo: "ricorderemo sempre" e, sotto, ancora più in piccolo, "i nostri amici e la famiglia". La galleria d'arte Alexander pubblica quattro disegni tratti da Life del 1916 "per tutti coloro che erano, sono e saranno newyorkesi". Sotto una foto della skyline di New York orfana delle Twin Towers, la compagnia di supermercati Kmart scrive tra i flutti del fiume Hudson "non dimenticheremo mai". Il museo nazionale di storia americana riporta tre frasi: "Ci fate avere un po' di bandiere americane?" del maggiore dell'Esercito della Salvezza Cherryl Miller; "Non potevo togliermelo dalla testa" dell'infermiere del pronto soccorso Michael Martin; e "Mamma, dove sei?" messaggio su una segreteria telefonica. Per il canale tv Discovery due mani si stringono su fondo nero, "Ritratti di lutto", e il testo recita "Furono eroi per scelta. Furono eroi per caso".
La definizione esatta di eroi sta suscitando una curiosa discussione, per niente affatto astratta, poiché gli eroi ricevono medaglie e le loro famiglie pensioni, i figli borse di studio. Il governo aveva considerato "eroi" pompieri, poliziotti, chi era morto nei soccorsi e nei salvataggi. Poi sono stati definiti eroi anche quei passeggeri del volo United Airlines 93, precipitato in Pennsylvania, che si erano rivoltati contro i dirottatori, facendo fallire il loro piano. Ma ora vogliono che i loro cari siano considerati eroi anche le famiglie degli altri passeggeri, e poi dei passeggeri degli altri tre voli, e poi dei morti al Trade Center.
Ma al di là dell'America ufficiale, della pompa ingessata in tv, della retorica patriottarda dei ministri, dell'ostentazione di lacrime, il sentimento prevalente è doppio, e la sua duplicità fa onore ai newyorkesi e alla città di New Nork. Da un lato tocchi con mano l'insofferenza per i paroloni e la sazietà per il dolore esibito; dall'altro avverti un grumo di sofferenza non risolta, un vuoto, un magone. "Non è possibile invitare la gente a cena mercoledì 11. Non si fa" mi ha detto un amico.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …