Marco D'Eramo: Vinta la guerra perdiamo la pace

16 Settembre 2002
Sotto maestosi alberi, gli sparsi edifici dell'università di Princeton si confondono nella quiete dei verdissimi prati, in un'ennesima riedizione dell'utopia arcadica che nell'800 ha presieduto alla costruzione dei grandi atenei Usa. Princeton è solo a un'ora di treno da New York, ma dista anni luce. Visto da qui, il bailamme violento del grande mondo al largo sembra solo cruenta, barbara follia. L'atmosfera bucolica fa degli anni universitari un momento sospeso nella vita di un giovane, una fase per un attimo sottratta alle catene del mercato, all'ansia dei licenziamenti, per quanto - sempre più - aliti sugli studenti il fiato delle banche che gli hanno concesso mutui per finanziare gli studi: le sole spese d'iscrizione in università della Ivy League ("la lega dell'edera", appunto), come Harvard, Yale, Princeton, Cornell, Chicago, superano i 25.000 euro l'anno (ma senza contare, cibo, alloggio, vita). In queste isole di verde privilegio e frondosa agiatezza sono arroccati i bastioni della sinistra americana.

Arrivo all'Institute for Advanced Study alle tre del pomeriggio, ora del tè per i membri dell'istituto, nella sala con poltrone e tappeti che, con grandi porte finestre, si apre sul parco curato.

Michael Walzer mi accoglie gentile, schivo, una vena di diffidenza. Succeduto in cattedra al grande Albert Hirschman (quello di Lealtà, defezione, protesta), Michael Walzer è una delle figure più eminenti della filosofia politica americana, e uno degli esponenti più attivi nel dibattito della sinistra, in particolare fa parte della direzione di Dissent, la rivista della sinistra ebraica newyorkese. E, con il passare degli anni, l'appartenenza alla comunità ebraica ha acquistato un peso sempre più rilevante nella sua vita e nel suo pensiero.

Preoccupazioni per la sopravvivenza dello stato d'Israele s'intrecciano alle riflessioni sulla guerra giusta (è giusta o no la guerra d'Israele? o quella del Golfo, o quella dell'Afghanistan?). Così, contro i vari Noam Choamsky e Howard Zinn, l'anno scorso Michael Walzer ha sostenuto la guerra in Afghanistan. E la rottura è insanabile tra le anime liberal e radical della sinistra. Ma mentre un Christopher Hitchins (anch'egli a favore della guerra) è solo un brillante bastian contrario, Michael Walzer porta in questa posizione lo spessore di una lucidità teorica, anche se ormai permeata da un un malcelato astio per "il solito antiamericanismo europeo", e però crepata da una vena di sofferenza che sembra come divorarlo dall'interno e che ne fa una figura tragica, quasi una personificazione dell'hegeliana "coscienza infelice"

C'è un abisso tra come hanno visto gli Usa la guerra in Aghanistan e come l'ha vista il resto del mondo, dove le tv e le prime pagine dei giornali mostravano le vittime civili, i bambini straziati dalle bombe americane.
Ogni guerra ha le sue foto raccapriccianti. Se decidi di mostrare le foto è per convincere la gente ad opporsi alla guerra. Da noi le foto dei corpi dilaniati dell'11 settembre non sono state mai più mostrate dopo i primissimi giorni. Fu una scelta. Penso che contro Afghanistan fosse una guerra giustificata. E che abbiamo fatto di tutto per mantenere al minimo le perdite civili.

Ma Osama bin Laden e la maggior parte dello stato maggiore di Al Qaida sono uccel di bosco, come anche il mullah Omar.
No. La guerra è stata un successo. Lo scopo era abbattere il regime taleban e scoraggiare così altri regimi in giro per il mondo dal proteggere i terroristi. E i taleban sono stati rovesciati.

Alla superpotenza mondiale non ci voleva molto per abbattere il regime di uno degli stati più poveri del pianeta: solo 25 km di ferrovie.
Ma in quel momento nessuno al mondo diceva che sarebbe stato facile: al contrario, gli europei ci hanno ricordato che i russi avevano combattuto in Afghanistan per otto anni e avevano fallito. Per decenni moltitudini di giovani andavano ad addestrarsi in Afghanistan per diventare terroristi. Questo è finito. I campi di addestramento di Al Qaida sono distrutti. È un successo decisivo.

È per lo meno stupefacente la logica che ha presieduto alla guerra: poiché 15 su 18 dirottatori erano sauditi, poiché il loro leader è un miliardario ex saudita, poiché le loro finanze sono saudite e la loro ideologia è il wahabismo saudita, ergo attacchiamo l'Afghanistan.
Cosa direbbero i suoi amici europei se attaccassimo i sauditi? E poi erano i taleban che ospitavano i terroristi, li proteggevano e hanno accettato di cadere piuttosto che consegnarceli.

Gli stessi Stati uniti dicono che la guerra al terrorismo non è stata vinta.
La cosiddetta guerra al terrorismo include una guerra vera, che abbiamo vinto in Afghanistan. Per il resto è un lavoro di polizia, che va avanti, per lo più in Europa occidentale, perché è soprattutto lì che i gruppi terroristi trovano rifugio.

In Europa la concentrazione di immigrati islamici è più alta.
No, voi siete più amichevoli col terrorismo di quanto siamo noi.

In altre stragi perirono ben più di 3.000 civili alla volta. Ma nessuno di questi massacri ha provocato l'emozione dell'11 settembre.
Perché questo era il primo attacco sul suolo Usa da decenni, da Pearl Harbor nel 1941, e perché sembrava preludere a ulteriori attacchi, più micidiali. Ci si parava di fronte una prospettiva di attentati nucleari, di attacchi virali, di gas asfissianti come nella metro di Tokyo. È sembrato l'inizio di un attacco contro l'occidente, ma in particolare contro gli Stati uniti.

Ma il modo migliore per battere il terrorismo non è privarlo delle ragioni di cui si nutre, in particolare il conflitto israelo-palestinese? Se gli Stati uniti avessero ritirato le loro basi dall'Arabia saudita e avessero esercitato tutto il loro peso per una soluzione palestinese equilibrata, cadrebbero molti alibi del terrorismo.
È una storia più complicata. A raccontarla, si dovrebbe risalire almeno alla guerra `14-'18, alla spartizione europea del Medio oriente, alla creazione di uno stato cristiano come il Libano e di uno stato ebraico. Non c'è un legame biunivoco di causa ed effetto tra soprusi americani e terrorismo: nonostante tutto quello che gli Usa hanno fatto in America latina, in Guatemala e in Cile, e nonostante la diaspora ispanica, non c'è un terrorismo latino-americano. C'è una diaspora africana e il nostro curriculum in Africa è spaventoso. Ma non c'è terrorismo africano. Ci sono moventi politici al terrorismo in tanti paesi sl mondo. Allora perché proprio in Medio oriente? Non credo che noi occidente siamo responsabili di tutto. Nelle società arabe c'è un fattore autodistruttivo, un capacità di autoinfliggersi ferite, di cui non siamo i principali responsabili.

Gli Usa hanno appoggiato i taleban, e Osama bin Laden è una loro creatura che si è rivoltata contro. Saddam Hussein era il loro protégé prima di diventare il nemico numero uno. Adesso l'alleato principale è quell'alfiere della democrazia che è il generale Pervez Musharraf.
È la politica. A ogni momento fai alleanze con qualcuno che non ti piace tanto ma può aiutarti. Certo, nessuna scelta particolare è inevitabile. L'appoggio a Saddam Hussein non era inevitabile. Ma alleanze di questo tipo sì. L'Europa agirebbe forse in altro modo?

Se la politica è solo tattica a breve termine sì. Ma se è strategia, allora no.
Sa cosa disse Mao Dse Dong quando un giornalista come lei gli chiese se la rivoluzione francese era stata una buona cosa? "È troppo presto per dirlo" rispose.

Non pensa che alcune libertà civili siano minacciate? Si parla di nuovo maccarthismo.
Ma c'è un sacco di opposizione contro la guerra in Iraq, e ce ne sarà ancor più. Ma nessuno teme di opporsi e di sfidare l'amministrazione Bush. Vengo intervistato da giornalisti europei che mi parlano come se i cittadini americani di origine araba fossero deportati in massa come i giapponesi nella seconda guerra mondiale.

È troppo presto per dirlo. Se c'è un altro attacco, non si possono escludere aggressioni contro gli arabi americani.
Va bene, ma rispetto alle due guerre mondiali e alla guerra fredda le restrizioni di libertà sono molto più limitate. Il paese non è in un umore militarista, c'è piuttosto un clima di ansietà. Il paragone con il maccarthismo è un errore di percezione. Ero adolescente negli anni `50. Quando traslocammo, eravamo la prima famiglia ebrea nel nostro isolato. E per vent'anni nessuno dei nostri vicini ci ha parlato: questa era l'America. Oggi sarebbe inimmaginabile, ora la società americana è assai più aperta alle diversità, più multiculturale che negli anni '50.

Ma c'è qualcosa che lei critica nell'amministrazione Bush?
Un sacco. La guerra in Afghanistan era giustificata, ma il dopoguerra è orribile. Hanno impedito a importanti alleati europei di pesare di più nella forza di pace internazionale. Un atteggiamento idiota perché volevano continuare la guerra anche quando era chiaramente finita, e pensavano che una forza di pace europea ci avrebbe ostacolati nel proseguo delle ostilità. Così sono tornati i signori della guerra e i ras tribali. Non abbiamo appoggiato la ricostruzione. Abbiamo vinto la guerra e stiamo perdendo male la pace. Quest'amministrazione è salita al potere con una posizione ideologica netta, contraria al "costruire le nazioni" (nation building); lo disprezzava come buonismo democratico dei Carter e dei Clinton. E ci stiamo preparando per una guerra all'Iraq che è non necessaria, è ingiusta. In politica interna è l'amministrazione più a destra di qualunque altro governo americano da un secolo a questa parte. Ho un sacco di critiche contro Bush. Ma il fatto nuovo è che - di fronte al militarismo ideologico di Bush - anche una parte della sinistra si è schierata per più interventi nel resto del mondo, per difendere i diritti umani. La sinistra voleva intervenire prima in Bosnia e ha rimproverato Clinton per non essere intervenuto in Rwanda. È un nuovo internazionalismo. In fondo negli anni `30 la sinistra voleva intervenire a favore della Spagna repubblicana. Certo, gli interventi non dovrebbero essere solo americani. Uno dei problemi nel mondo attuale, una delle cause dell'unilateralismo Usa è il fallimento dell'Europa a costituirsi come un'alternativa efficace sulla scena mondiale. Oggi gli europei potrebbero costringere Saddam Hussein ad accettare le ispezioni, visti i rapporti che hanno con Baghdad. E così potrebbero evitare la guerra. Se l'Europa ha solo una valuta comune, ma non una politica comune, l'unilateralismo Usa non può essere fermato dall'opposizione interna, ha bisogno di un'alternativa politica.

Non pensa che attorno a Israele si stia creando una tale ostilità da far temere che, appena gli Stati uniti voltano la testa, possa verificarsi un genocidio?
E' la ragione per cui i coloni israeliani dovrebbero ritirare i loro insediamenti e si dovrebbero creare due stati.

Trent'anni fa in Israele il governo era laburista e la società era molto più laica. Oggi i fondamentalisti hanno un peso sproporzionato. L'Olp era un gruppo laico, con molti esponenti cristiani. Oggi predominano gli integralisti islamici. E in Egitto cresce l'influenza dei Fratelli musulmani, anche se repressi. Tutta la regione è divorata dal fondamentalismo.
E' vero, ci sbagliavamo sulla tendenza che chiamavamo secolarizzazione. Eravamo sicuri, come di una tendenza naturale, che il mondo si sarebbe sempre più "disincantato", per usare il termine di Max Weber. Ci sbagliavamo. Il laicismo è stato incapace di riprodursi culturalmente, non siamo stati abbastanza bravi da riprodurci, noi ebrei laici, cristiani laici, musulmani laici. I gruppi religiosi forniscono simboli e servizi per il ciclo di vita: celebrano nascite, matrimoni, commemorano i morti. Il movimento laico non lo ha mai fatto. In Israele i kibbuzim ci hanno provato a laicizzare le feste ebraiche, con la festa della mietitura e così via. Ma era una patacca e ci hanno rinunciato. Ci ha provato la socialdemocrazia europea quando ha cercato di fornire servizi dalla nascita alla scuola, alla morte. Ma il suo stesso successo ha minato dal suo interno la sua base culturale: la cultura operaia solidaristica è scomparsa, resa superflua dal welfare. Oggi non abbiamo modo di fornire quel che danno le religioni. E' qualcosa che scava nel profondo. La gente ha bisogno di un modo per il lutto. Sono appena stato al funerale di un intellettuale di sinistra. Nessuno sapeva cosa fare, quando lacrimare, cosa cantare, quando parlare, nessuno sapeva nulla di riti, cerimonie, simboli. Era il segno del nostro fallimento: come possiamo riprodurci in questo modo?

Di ritorno a New York, qualche giorno dopo, in un pub affollato di pompieri festanti, racconto a Frances Fox Piven il dialogo con Michael Walzer: "Ma da quanti secoli esiste una corrente laicista?" risponde: "Dal Rinascimento, certo almeno dal `700. Quindi il laicismo si è riprodotto per almeno tre secoli, perché non può riprodursi per un altro? E' vero però che il laicismo richiede una saldezza d'animo straordinaria perché ti lascia solo di fronte alla morte, senza al di là".

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …

La cattura

La cattura

di Salvo Palazzolo, Maurizio de Lucia