Giorgio bocca: Se prevale la legge del più forte

03 Ottobre 2002
Nelle cronache delle relazioni politiche mondiali non esiste più la minima traccia di un diritto internazionale, di un rapporto fra gli Stati basato su valori comuni, su una comune giustizia. Esiste solo la legge del più forte e dei suoi interessi. L'assemblea delle Nazioni Unite ascolta in silenzio l'ultimatum di Bush all'Iraq di Saddam Hussein, il dittatore canaglia che sta, si dice, fabbricando una bomba atomica che userà certamente, si dice, contro il mondo civile. E un grido di dolore esce dalla bocca del signore del mondo: "Che cosa aspettiamo a fermarlo?".
Il mondo capovolto. Il dittatore iracheno sta tentando di fare ciò che hanno fatto Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Russia, Cina, India, Pakistan, Corea del Nord, Israele, probabilmente il Giappone senza che nessuno abbia tentato di fermarli ma l'unico nemico della pace è lui.
Sta per scoppiare una guerra per la minaccia di un paese come l'Iraq che sarebbe raso al suolo ancor prima di lanciare il primo missile intercontinentale che non ha. Ovviamente conosciamo la vera ragione. I potenti del mondo hanno necessità di assicurarsi il controllo delle fonti petrolifere che si stanno esaurendo, hanno bisogno di una quarantina di anni per trovare nuove fonti di energia. Tutta la zona del petrolio dal Medio Oriente all'Asia centrale deve essere ordinata e protetta, tutti i governi devono essere affidabili. La guerra al terrorismo si fa in tutto il mondo, ma questa è la zona nevralgica. E ancora: la crisi economica e finanziaria aperta dalla new economy, i rischi della globalizzazione, le mutazioni dell'ambiente allontanano l'utopia del governo mondiale e rendono sempre più difficile quello delle nazioni. L'inquietudine che diventa angoscia domina il mondo. Occorrono dei nemici reali o virtuali per assicurare il consenso dei sudditi: niente di meglio che la guerra continua, la continua mobilitazione. Ma a sessant'anni dalle ultime tragedie delle guerre continue e dei continui genocidi non si ha ancora il coraggio di dire le cose come stanno e di muovere con bandiere e canzoni verso nuove stragi. E allora si ricorre all'ipocrisia e alla retorica che hanno coperto le commemorazioni dell'11 settembre. Delitto orrendo, dolore e sdegno sacrosanti ma impermeabili ai dolori e alle sciagure altrui; il terrorismo come una entità demoniaca arrivata da chi sa quale angolo oscuro dello spazio. Il lutto del mondo civile e cristiano vero, profondo, ma gli altri come inesistenti o come gli esseri ripugnanti che popolano i deliri della Fallaci e le masse dei suoi appassionati lettori.
Spaventosa, feroce, assurda la tragedia di Manhattan, ma altrettanto terribile la constatazione che a pochi anni dallo scempio razzista o fanatico delle guerre mondiali, delle dittature totalitarie c'è una cultura di massa ancora pronta a risolvere i problemi con la forza, con il dominio. Che milioni di persone oggi dopo decine di secoli sono ancora pronte a sostenere il primato di una religione, di una razza, a rinfacciarsi meriti e colpe da anno mille, le scorrerie dei saraceni come la riconquista della Spagna dei re cattolici.
Il tempo della ragione e del pentimento è durato poco nel mondo avanzato, il tempo che sembrò chiudersi con le stragi "necessarie" di Hiroshima e di Nagasaki, quando le nazioni superstiti scrivevano nelle loro costituzioni il no per sempre alle guerre è già finito, i nuovi entusiasmi bellicosi suonano come campane a morto.
Con spaventosa indifferenza capi di Stato europei parlano della possibilità, della necessità di una guerra che seminerebbe distruzioni irreparabili nei paesi vicini e nei nostri. Per conservare un benessere di cui tutti avvertiamo la sproporzione e l'ingiustizia.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …