Marco D'Eramo: Suburbs. Questo è il sogno americano

18 Febbraio 2003
In Europa, la borghesia agiata vive nei centri delle grandi città e i coatti sono relegati in periferia, nella banlieue, nell'hinterland. Negli Stati uniti avviene il contrario: i poveracci, l'underclass, vivono nel centro città – e infatti i ghetti urbani si chiamano inner cities –, mentre i benestanti si ritirano nei suburbi, fatti di sterminate distese di casette unifamiliari costruite con la tecnica balloon frame, quella con cui, nell'omonimo film, in un solo giorno i sette fratelli costruiscono le case delle sette spose: a tutt'oggi il 79,7% degli americani vive in casette unifamiliari che al 96% sono in legno.
I suburbi americani non esisterebbero senza la casetta unifamiliare e senza l'automobile. E neanche senza una incredibile disponibilità di spazio. È lo spazio che consente, anche economicamente, a famiglie della classe media di possedere una villetta unifamiliare. Basti pensare che, se avessero una densità di popolazione pari a quella italiana, gli Stati uniti sarebbero abitati da 1,7 miliardi di umani e non dai 280 che invece ci vivono. Ecco perché – tranne rare, opulentissime eccezioni – i suburbi all'italiana hanno quest'aria un po' meschinella, affollata, costipata, con villette multifamiliari.
Quando si parla di "sogno americano", pochi europei sanno che consiste solo in una casetta unifamiliare di proprietà col praticello e l'automobile davanti: tutto qui. Ma questo "sogno" è il centro della american way of life. Vivere nel suburbio è anche il sogno di vivere vicino alla metropoli per il lavoro, i divertimenti, gli acquisti (centri commerciali, Malls), ma lontano dalle sue brutture, dall'inquinamento, dalla criminalità, dal traffico, cioè immersi nell'innocenza della natura. Ecco come Robert Mumford ci descrive l'utopia suburbana nella sua classica La città nella storia: "In città i poveri facevano dimostrazioni, i mendicanti tendevano le mani per strada, e le malattie si diffondevano rapidamente dai quartieri più miserabili alle dimore dei benestanti attraverso i fattorini, le lavandaie, le guardarobiere e altro indispensabile personale di servizio; l'occhio, se non si cercava scientemente di volgerlo altrove, poteva in una passeggiata di cinque minuti rivolta in qualsiasi direzione posarsi su uno slum o almeno su un bimbo degli slum... Nel sobborgo invece si poteva vivere e morire senza che nulla deturpasse l'immagine di un mondo innocente, a meno che una traccia del suo male inciampasse in una colonna di giornale. Esso era pertanto un asilo per la conservazione delle illusioni. Qui la domesticità poteva fiorire senza preoccuparsi dello sfruttamento su cui tanto era basata. Qui l'individualità poteva prosperare, dimentica dell'irreggimentazione che pure la permeava. Non era solo un ambiente in funzione dei bambini; era una visione infantile del mondo, in cui il principio di realtà era sacrificato al principio di piacere." Due volte "innocente" – verso la natura e verso gli umani – è il suburbio americano: innocente del bosco (abbattuto) di cui scimmiotta la radura, innocente dell'inner city (devastata) dalla cui violenza rifugge.
Nel suburbio il bambino può giocare per strada, l'adulto può persino passeggiarvi, addirittura percorrerla in bici. Quel che sarebbe sconveniente in città, rivolgere la parola a un passante, diventa qui atto di cortesia poiché il passante è un vicino. Mentre la villetta europea è circondata da un recinto e il suo giardino è situato davanti, la casa unifamiliare americana si presenta inerme, con il prato davanti senza recinto; però dove la famiglia vive all'aperto e picnicca a barbecue, è il cortile dietro la casa, nascosto alla vista.
Negli Stati uniti, ogni bambino europeo rimane perciò estasiato dal binomio suburbio/casetta unifamiliare, col suo corollario di prati ben curati e giochi all'aperto. La vita vi è davvero innocente, come diceva Mumford; la domesticità vi prospera, l'individualità vi fiorisce.
Ma è enorme il prezzo umano e ambientale di questo sogno. Ogni casetta tra alberi e prati deve avere accesso alla strada. Quindi per ogni due villette unifamiliari, vi deve essere un tratto di strada sui cui due lati queste case si affacciano. Se una casa col suo prato si affaccia per 20 metri, a diecimila famiglie occorrono 100 chilometri di asfalto senza contare le trasversali, le arterie principali, le strade veloci, le vie in cui sono situati i servizi urbani, i centri commerciali. L'esigenza di vivere nella natura, di abitare tra alberi e prati produce più asfalto per abitante di qualunque cementificata, artificiale metropoli. E moltiplica la rete fognaria, quella telefonica, elettrica, dell'acquedotto. Il numero di infrastrutture per abitante cresce all'infinito. Per costruirle e farle funzionare serve una quantità mostruosa di energia (senza contare che ogni casa ha il suo riscaldamento e raffreddamento). Per lavare ogni suo abitante bipede, quadrupede, o quadriruote, per innaffiare il suo praticello, ogni casa beve una dose d'acqua letteralmente insensata. Dietro la sua apparenza innocente, dietro la sua levità, il suburbio con la casetta balloon frame nasconde una voracità sconfinata, voracità di legna, di asfalto, di energia, di acqua.
Il suburbio risucchia risorse anche umane. La sua popolazione è talmente diradata che proteggerla richiede un costosissimo dispiegamento di polizia (per secoli la gente si è ammucchiata nei paesetti medievali, nelle città, per proteggersi, per stare al sicuro). Ciononostante il suburbio vive nel timore dello psicopatico, dello sconosciuto e, nella sua variante moderna, del pedofilo. Segnali stradali incoraggiano i cittadini a vigilare, a segnalare alla polizia qualunque incontro insolito: su questi pannelli è tracciata l'immagine nera, in ombra cinese, del viso di uomo con un feltro dalla tesa minacciosa. A timore estremo, rimedio estremo: l'ultima forma che hanno assunto i suburbi è quella delle città private, delle comunità recintate (gated communities), veri fortini con le proprie polizie private.
L'automobile ha reso possibile questa forma di esistenza umana, ma a sua volta il suburbio esclude qualunque sistema di trasporto che non sia l'automobile. La densità abitativa è talmente bassa che qualunque forma di trasporto in comune perde senso. I suburbi sono stati finanziati e costruiti grazie a una politica che ha smantellato i pubblici trasporti; ma una volta creato il suburbio, diventa impossibile reintrodurvi autobus o tram, la nuova organizzazione non li consente più. E così il sogno del pendolare, di vivere a contatto della natura, richiede che la maggior parte della propria vita trascorra al volante, tra i gas di scarico (il suburbano medio passa in auto almeno tre ore al giorno).
Corollario di questo dato è che bambini e adolescenti, i teens – che ancora non guidano – vanno accompagnati ovunque, dagli amici, in piscina, al cinema (ecco perché la patente negli Usa is può prendere a 16 anni). Le mamme sono chauffeuses. Il suburbio è costruito e pensato per una casalinga che qui dovrebbe, mamma e moglie, vivere felice, lontana dalle ansie del lavoro, della città, della folla, degli sconosciuti. Per Betty Friedan il suburbio è il campo di concentramento in cui è racchiusa la donna americana, quella particolare specie umana che è la "casalinga suburbana" (assonnate con "subumana").
Altro corollario è che, appena escono dall'infanzia, i ragazzi si annoiano da morire: nel suburbio non c'è niente, solo erba e casette. Quindi si rifugiano nelle gangs.
Non c'è niente da fare: più lo si guarda da vicino e più l'idillio suburbano nasconde un inferno sotterraneo. Il paradosso è che gli americani sembrano essersene accorti (meglio tardi che mai), e infatti per la prima volta nell'ultimo decennio la popolazione dei centri urbani è cresciuta. Mentre gli europei si scoprono una tardiva, subitanea infatuazione suburbana. Ma, si sa, la regressione infantile colpisce indifferentemente dalla sponda dell'Atlantico in cui ci si trova.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …