“Da Bologna a Lepanto”. Un racconto di Domenico Starnone

03 Aprile 2003
Gino non mi disse nemmeno ciao e cominciò a parlare di Silvia. Cercai di spiegargli che la vespa non voleva più avviarsi, che la pioggia aveva allagato la città, che avevo già provato a chiamare un taxi ma non se ne trovavano. Fu inutile, alzò persino meccanicamente la gamba sinistra per mettersi a cavalcioni sul sedile, in testa aveva solo Silvia. Mi disse: lei sa benissimo che non dovrebbe andare e invece ci va ugualmente: le donne innamorate agiscono così. Lo strattonai, gli scandii con fermezza: Gino, la vespa è morta, non la possiamo usare, non funziona più. Lui fece lo sguardo di chi si è svegliato ma non riesce a cancellarsi i sogni dagli occhi. Gli suggerii: prendiamo la metropolitana, scendiamo a Lepanto e poi ce la facciamo a piedi. Acconsentì con un cenno e subito tornò a raccontare.
Percorremmo a passo svelto via Belluno e poi via Catanzaro. Quando attraversammo via Ravenna. dovetti prenderlo sottobraccio per evitare che, distratto com’era, finisse sotto un’auto. Conoscevo già la storia di Silvia, ma Gino era in ansia, voleva ripetermela ancora una volta prima di andare all’appuntamento, passaggio dietro passaggio. Silvia, dunque, si era laureata in Economia e Commercio a ventidue anni, ora lavorava al Ministero dei Lavori Pubblici. "Si è sposata a venticinque anni" mi gridò nel traffico di piazza Bologna," con un medico, Franco, un bel giovane divorato dall’ansia di fare carriera e soldi". Il loro matrimonio era stato felice fino a quando, a trent’anni, Silvia era rimasta incinta. Da quel momento Franco aveva cominciato a tradirla. Lei se n’era accorta quando la figlia aveva un anno e due mesi. C’era stato un lungo periodo di crisi, ma poi i due avevano deciso di restare insieme. "Silvia sa benissimo che ogni volta che Franco parte per un convegno si preoccupa innanzitutto di trovare una donna che lo accompagni" sottolineò Gino finendo quasi per calpestare i dischi esposti sul marciapiede, sotto un telo trasparente e umido di pioggia, da africani che battevano i piedi per combattere il freddo. Per un po’ la donna ne aveva sofferto ("Scusi" dissi a un giovane nero che aveva in testa un berretto coi paraorecchi), poi si era acquietata e dopo un po’ si era innamorata di un suo collega, Stefano. La relazione era diventata presto un legame molto stretto, esigente, i due non resistevano a lungo senza vedersi. "E’ naturale" confermai per mostrargli che stavo a sentire, e rincarai per tranquillizzarlo: molto naturale, ma stando attento a scansare i passanti che si muovevano in fretta come fantocci spinti dal vento, sotto una pioggia sottile e obliqua. Scendemmo in fretta nella stazione del metrò, finalmente niente pioggia, solo quel senso di malato che dà l’umido nello ossa e la luce artificiale dei passaggi sotterranei. Il giornalaio – scoprii - aveva finito i biglietti, andai ai distributori automatici, infilai un paio d’euro ma la macchina non mi diede né i biglietti né mi restituì la moneta. Allora un ragazzino, che stazionava accanto alla macchina, - dieci anni, credo, forse un indiano, forse no, parlava benino l’italiano - mi disse che dovevo prima infilare nella fessura due centesimi e poi un euro: solo in quel caso la macchina mi avrebbe dato il biglietto e il resto. Scoprii che avevo solo tre monete da un euro e una da venti centesimi. Il ragazzo mi offrì due monetine da due centesimi, arraffò tutti i miei spiccioli, fece lui le operazioni necessarie per ottenere i due biglietti e intascò il resto. Di me si occupò poco, guardò invece con interesse Gino che, dopo aver ingannato l’attesa muovendosi a passi nervosi nello spazio nerogrigio tra la macchina automatica e il giornalaio, disse come se non si fosse mai interrotto: "Insomma, appena può Silvia corre a scopare con Stefano".
Spinsi Gino giù per la scala mobile, scartai la direzione Rebibbia, sprofondammo verso la direzione Laurentina. Alla radice della scala mobile notai una donna in piedi, non un gesto, l’aria compunta, gli occhi bassi, fazzoletto in testa, un bambino addormentato in braccio e un cartoncino su cui erano scritte fame e sofferenze. Ci feci caso per via dell’immobilità assoluta, come quella degli artisti di strada che fanno finta di essere statue. Gino però si accorse subito che mi ero distratto. Mi tirò per l’impermeabile e disse: "Segui bene, i guai cominciano a questo punto: Silvia è in macchina, è sabato, il giorno della settimana che dedica tutto a Lauretta, sua figlia. Stanno andando insieme a Villa Borghese, passeranno ore alla giostra, la bambina cavalcherà il ciuchino, andranno al giardino zoologico. Lauretta ha cinque anni, bella, bionda, ben vestita, è vivacissima, si esprime con molta proprietà. Madre e figlia cantano una canzoncina con allegria, ogni tanto si scambiano carezze e baci". Feci l’aria attenta per compiacerlo, ma falsamente. In realtà ero svogliato, l’ennesima versione della storia di Silvia mi annoiava: tenni d’occhio la donna immobile con in braccio il bambino, la traccia degli ombrelli sgocciolanti, la fila di passeggeri in attesa, una catena multietnica tesa tra i due cerchi neri del tunnel. Stavo cercando di ricordare chi era l’autore del minuetto diffuso dagli altoparlanti – Boccherini? quel brano lo conoscevo bene - quando Gino mi colpì un braccio con la mano, mi disse: "A questo punto squilla il cellulare di Silvia. E’ Stefano. Vuole vederla, ha bisogno di vederla subito, insiste, e non perché sia un uomo irragionevole, tutt’altro, è solo un uomo innamorato. Sua madre è morta quando aveva nove anni e quella morte precoce gli ha indotto un senso di precarietà che lo accompagna sempre. Poiché è cresciuto con la paura di perdere tutto all’improvviso, vive la vita senza rimandare mai nulla a domani". Acconsentii distrattamente: esatto, ben detto, Stefano era proprio così. Glielo ripetei due volte perchè si sentisse corroborato dal mio consenso e mi lasciasse in pace. Poi mi accorsi dei due uomini in tuta blu, armati, che venivano giù sulla scala mobile come attori di un telefilm. Li vide subito anche la donna, che scompose la sua posa di fame e dolore e arretrò in fretta nascondendo il cartoncino. I due vigilanti si mossero veloci e la bloccarono. Lei alzò la voce protestando in una lingua ibridata. Gesticolava con un braccio solo, la gonna lunga, le cocche del fazzoletto che s’allungavano di lato per via del vento causato dal treno in arrivo. "Se i vigilanti la picchiano, possono fare male al bambino" pensai vedendo che i giovani poliziotti diventavano sempre più minacciosi. Gino intanto chiese gridando, mentre il treno entrava in stazione con uno stridio profumato di ferro caldo: "Silvia, di fronte alle richieste pressanti dell’amante, cosa fa?". Una donna sui trent’anni lo guardò incuriosita dalla parola ‘amante’. Le porte si aprirono, ne uscirono i passeggeri con sguardi opachi. Mi girai verso la donna e i due poliziotti, ma non riuscii più a vederli. Gino si rispose, sempre ad alta voce, mentre venivamo sospinti nel vagone: "Silvia tentenna, è incerta, si scioglie per il desiderio. Poi cambia bruscamente itinerario e lascia il viale del Giardino zoologico".
Il metrò era affollato. Due fermate per Termini, mi dissi che non dovevo distrarmi. Gino, aggrappato ai sostegni rossi, non smise di incalzarmi. Silvia aveva deciso d’impeto, sarebbe passata da Stefano solo per pochi minuti, il tempo di salutarlo. Ma i dettagli si sommavano ai dettagli, le finezze psicologiche a brevi monologhi interiori. Il metrò fermò a Policlinico e ripartì per Castro Pretorio prima che la donna, nel racconto di Gino, trovasse da parcheggiare nei dintorni di piazza Giovenale, quasi sotto casa di Stefano. Gino gridò per superare il fragore del treno: "Da’ alla bambina un libro con le avventure della Pimpa, le raccomanda di non muoversi, dice che la mamma torna subito, abbassa di qualche centimetro un finestrino per far passare l’aria, fa scattare la chiusura delle porte col telecomando e corre dal suo amante". Esclamai ironico: brava Silvia, e il treno fermò a Castro Pretorio. Qualcuno scese, salì un uomo pesante con la fisarmonica. Si trovò un angolo, attaccò a suonare Rosamunda. Mi accorsi subito che non era solo. Una bella donna giovane e stremata, incinta vistosamente, tirò fuori un tamburello e accompagnò il suono della fisarmonica con un brusio metallico svogliato, fuori tempo. C’era anche un bambino, non più di otto anni, minuto, scuro, occhi grandi e soddisfatti di chi sa che è al centro di un gioco. Il piccolo estrasse di tasca un cartoncino, ci lavorò con le dita, il cartoncino rivelò di essere un bicchiere di carta col marchio della Coca Cola. Compiuta l’operazione, si mosse per il vagone con un’aria divertita tendendo il bicchiere e dicendo grazie. Si muoveva con destrezza malgrado lo sbandare brusco del treno. Mi frugai in tasca meccanicamente in cerca di monetine ma non ne avevo. Gino mi urlò nell’orecchio: "Silvia si precipita trafelata in ascensore, sale, bussa. Stefano le apre. Si abbracciano, si baciano, si mordono, si rotolano sul pavimento mugolando di passione". Lo sentì l’intero vagone, anche il bambino. Perciò forse si distrasse, inciampò e cadde. Sulle note finali di Rosamunda le monetine uscirono veloci dal bicchiere della Coca Cola e si dispersero per il vagone. La donna si arrabbiò, si accoccolò con fatica a raccogliere. L’uomo restò impassibile. Spinsi Gino verso l’uscita, i nuovi passeggeri già cercavano di entrare, eravamo a Termini.
Seguii la traccia rossa della linea A con molte domande oziose nella testa: "L’uomo con la fisarmonica è il marito della donna col tamburello, è il padre del bambino che lei porta nella pancia come del bambino col bicchiere di carta? O tutti e tre si conoscono appena e si tratta solo di un’associazione a scopo di lucro? Dove vivono, come vivono, da dove vengono? Chi si cura di tutti questi bambini di regioni povere o in guerra, dispersi per le nostre strade? Cosa accade a ciascuno di loro, maschi e femmine, cosa sta accadendo adesso, mentre Gino e io andiamo da Bologna a Lepanto?".
A Termini ora non c’era la musica in sordina, che in genere intenerisce o ammansisce, ma il giornaleradio. Una voce di donna diffondeva notizie quasi sussurrando. Il ministro Maroni aveva dato non so che ultimatum alla Fiat. A Firenze cinquecentomila persone avevano manifestato per la pace senza che nessuno di loro restasse in una pozza di sangue sul selciato. Bush aveva ribadito che il regime di Saddam Hussein, a giudizio del mondo, era fuorilegge e perciò non poteva costruire o possedere armi di distruzione di massa. Conseguenza: se Saddam non rispettava il giudizio del mondo, ci avrebbe pensato Bush a farglielo rispettare. Mi sentii all’improvviso desolato. Ero stanco della voce angosciata di Gino, del tempo inutile che passavo con lui, persino dei soldi che ne avrei ricavato. Non mi piaceva – mi accorsi - nemmeno la voce di donna che sussurrava notizie come se fossero parole d’amore. Mi sarebbe piaciuta almeno un’inflessione di disagio, una tonalità di disaccordo. Perché i regimi considerati non fuorilegge dal giudizio del mondo potevano costruire o possedere armi di distruzione di massa? Per poterle usare contro i paesi fuorilegge e distruggere vite, costringerle a consumarsi oltre che nella miseria nel terrore? Per influenzare con la minaccia delle armi il giudizio del mondo? Quale mondo, del resto, formulava giudizi capaci di contare? Tutto il mondo? Solo il mondo ricco e potente? Si trattava di giudizi spassionati? Perché il mondo non si preoccupava piuttosto di proteggere i bambini dispersi per le sue strade d’acqua e di terra, invece di pretendere che il suo giudizio fosse imposto con le armi? Sul marciapiede della linea rossa, la A, direzione Battistini, tra la folla e il malodore di ammoniaca, Gino mi raccontò come estenuato lui stesso dall’amplesso che mi aveva illustrato in dettaglio: "Il tempo è volato. Silvia ora si strappa a fatica dagli abbracci di Stefano. Corre giù per le scale, corre alla sua automobile. Ha un sussulto, uno sportello è aperto. La piccola Lauretta non c’è, è sparita".
Faticammo a entrare in un vagone, pressati da corpi con gli abiti bagnati di pioggia. Silvia, terrorizzata, aveva chiamato più volte Lauretta, aveva guardato nelle vie laterali, aveva chiesto ai passanti. Niente. Allora era tornata da Stefano, s’erano precipitati a cercare la bambina per la città. Intorno a noi qualcuno ascoltava quella vicenda senza parere, qualcuno mostrava un visibile interesse, qualcuno infilava la porta a Barberini, a Spagna, scontento di non poter sapere se Silvia e Stefano avrebbero ritrovato Lauretta. Io invece tenevo d’occhio un uomo intorno ai sessant’anni, mal messo, capelli radi, un occhio semichiuso da un’infezione. Da un po’ di tempo si asciugava la fronte pallidissima e sudata, gli occhi malati con un kleenex, poi lucidava accuratamente il tubo rosso a cui si teneva. All’improvviso si rivolgeva ai passeggeri e gridava: "Voglio morire. Voglio morire come sono morti loro". Dopo Spagna la folla diradò. L’uomo si sedette. La gente del treno guardava senza darlo a vedere i nuovi passeggeri che si afferravano al corrimano su cui l’uomo aveva passato il kleenex zuppo dei suoi umori; o che ignari sedevano accanto al matto. Matto poi. Non era matto anche Gino che strillava: "A questo punto Silvia si chiede se deve informare il marito, se deve chiamare la polizia"? Non ero matto anche io che borbottavo: "No, non può, è meglio che non ci prova nemmeno. Come fa a spiegare perché ha lasciato in auto una bambina di cinque anni? Come fa a dire dove è andata? Lei e Stefano non possono fare altro che cercare Lauretta da soli"? Matti: la demenza dei sani piuttosto. Noi passeggeri sorvegliavamo l’uomo e intanto facevamo come se non ci fosse. Se all’improvviso gridava: "Devo fare una morte brutta come quella che ho fatto fare a loro" o si rivolgeva direttamente a uno di noi chiedendo: "Lo sai cosa ho fatto?", non avevamo reazioni, facevamo finta che non ci fosse. Perciò lui si disperava e gridava: "Ho ammazzato otto donne e i loro figli". Poi si accasciava su un sedile, si metteva a piangere. Il vagone intanto correva livido, ora mi pareva che fossimo tutti morti, o eravamo solo lo sfondo di un incubo nella testa di quell’uomo. Come Silvia, Stefano, Lauretta nella testa di Gino.
A Lepanto scendemmo, ci dirigemmo a passo svelto verso l’uscita. Non pioveva più. Prendemmo per via Ferrari, poi deviammo verso Martiri di Belfiore. Dissi a Gino: "Forse dobbiamo occuparci meno di Silvia e Stefano e star dietro invece a Lauretta, per raccontare cosa succede ai bambini abbandonati per le strade di una grande città". Lui si disorientò, fu colto dal panico. Borbottò: "Così mi confondi le idee. Si era detto che raccontavamo la storia di una coppia di amanti che devono ritrovare una bambina…". Lo incoraggiai: "Tu prova: non sarebbe male un film dickensiano". Gino si mostrò sempre più disorientato, era molto depresso quando sbucammo in viale Mazzini. Ritirammo la tessera magnetica, salimmo in ascensore. Mentre attendevamo che Magda ci ricevesse, Gino mi chiese: "Comunque il racconto fino a quando Silvia perde la bambina funziona?". Risposi: "Benissimo: dopo però dobbiamo alternare la ricerca di Silvia e Stefano a Lauretta che sprofonda sempre più tra bambini accattoni, randagi, affamati". Gino scosse la testa: "E’ troppo tardi per cambiare la storia, finisce che mi impappino. Raccontala tu, se ce l’hai più chiara". Dissi quello che voleva sentire: "No, io non sono bravo".
A quel punto Magda ci chiamò, entrammo, ci accomodammo. Gino ricominciò il racconto, ce la mise tutta. La funzionaria represse uno sbadiglio, disse: ‘Va bene, l’inizio è buono, ne parlo con Sannicola. Attenti però a non cadere nel sociologismo. L’ultimo tuo film mi è piaciuto molto soprattutto per la leggerezza". Gino nemmeno mi guardò, esclamò felice: "Fidati, sai benissimo che tipo di regista sono io e come scrive lui. Dillo a Sannicola".
Guardai il ficus accanto alla finestra.

Domenico Starnone

Domenico Starnone (Napoli, 1943) ha fatto l’insegnante e il redattore delle pagine culturali del ‟Manifesto”. Oltre a opere narrative, ha scritto molti libri sulla vita scolastica (da cui sono stati …

La cattura

La cattura

di Salvo Palazzolo, Maurizio de Lucia