Marco D'Eramo: L'amaro calice di Mr. Blair

03 Aprile 2003
LONDRA - Tutta cemento grigio e vetri riflettenti, la sede del Financial Times si erge sulla riva sud del Tamigi, subito dopo il ponte Southwark, arrivando dalla City. John Lloyd viene a prendermi alla reception, mi mostra come appoggiare il pass magnetico per passare i cancelletti di sicurezza e mi porta nella mensa del più presigioso quotidiano della finanza internazionale. La "cantina" dà su un assolato panorama di tetti grigi e squallidi. È ora di lunch e sui tavoli vengono spazzolate enormi porzioni di pollo con riso in salsa e insalata. John Lloyd, direttore del supplemento del week-end, un passato di corrispondente nell'Europa orientale e centrale, è uno dei pochi blairiti a dichiararsi tale: "In Gran Bretagna il sostegno intellettuale a Tony Blair è molto più sottile di quello di cui gode negli Stati uniti George W. Bush. L'amministrazione Bush è quella più influenzata dagli intellettuali, in tutta la storia americana da Kennedy in poi. Da noi a Londra non è così, a parte il sociologo Anthony Giddens (della London School of Economics), il mensile Prospect (diretto da David Goodhart) e pochi altri, lo strato intellettuale (insegnanti, giornalisti, accademici, mondo dello spettacolo) è tutto contro la guerra. Persino qui al Financial Times, la maggior parte della nostra redazione è contro la guerra".
Questo è un fenomeno normale in tutti i paesi del mondo: il 90% dei giornali di destra è redatto da giornalisti di sinistra, Ma nel caso del Financial Times c'è di più: per esempio, dopo il vertice di giovedì a Camp David tra Blair e Bush, l'organo della City nota che tutte le condizioni poste da Blair per partecipare alla guerra sono state snobbate dagli americani e conclude che implicare l'Onu negli accordi del dopoguerra dovrebbe essere "non negoziabile", altrimenti questa volta Blair "deve prepararsi a rompere le righe piuttosto che accodarsi".
Certo che, finché non inciamperemo nella balzana, ancorché non inedita, nozione di "liberal-imperialismo", vi è qualcosa d'incomprensibile nella pertinacia con cui si Blair si ostina a seguire Bush, tanto più che - riconosce Lloyd - larga parte dell'apparato di stato era contraria, a cominciare dal Foreign Office (il ministero degli Esteri), passando per lo stato maggiore militare, per finire persino con il servizio segreto M16 che - richiesto - non ha fornito a Blair nessuna prova delle armi di distruzione di massa, costringendo il gabinetto del premier a cercare le informazioni su Saddam addirittura su Internet (con la figuraccia di farsi scoprire ad avere scopiazzato da una vecchia tesi di dottorato, basata su dati del 1991). "C'è un'insofferenza generalizzata per la rozzezza degli americani, vige sempre un soggiacente paragone di noi britannici che siamo i colti greci e gli americani che sono i brutali romani", dice Lloyd.
Né la peregrinazione tra i blairiti londinesi riesce a chiarire il mistero Blair, un premier troppo orgoglioso per voler essere davvero il cagnolino di Bush che salta quando glielo dice il ministro della Difesa Usa Donald Rumsfeld. Anche se oggi i bellicisti appaiono più rilassati e più sicuri di sé, a partire dall'inquilino di Dowining Street che è di colpo ringiovanito rispetto a due settimane fa, quando era invecchiato di vent'anni, sconfessato dall'opinione pubblica e contestato dai propri parlamentari. Ora i sondaggi hanno capovolto il rapporto tra favorevoli (passati dal 30 al 54%) e contrari (dal 47 al 30%) alla guerra, anche se le cifre sono fluttuanti: "Dimostrano solo che la posizione di fronte alla guerra non è radicata, è superficiale", mi dirà David Goodhart nel suo ufficio di Prospect, a Bloomsbury, proprio accanto al British Museum. Infatti, col prolungarsi e incancrenirsi della guerra, i sondaggi rischiano di ribaltarsi ancora.
E comunque, mi fa notare John Kampfner, political editor del settimanale di sinistra The New Statesman, nessun premier inglese aveva mai subito una simile rivolta da parte dei suoi parlamentari, in un secolo di storia dei Comuni.
Sulla strategia geopolitica di Blair si possono perciò fare solo ipotesi: la prima è che - nella sua sconfinata ambizione - Blair voglia ricostituire un'entità imperiale come il Commonwealth, solo questa volta a guida americana: in fondo già nel 1948, a firmare il Patto Ukusa che istituì il sistema di spionaggio Echelon erano stati i membri anglosassoni del Commonwealth (Australia, Canada, Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Stati Uniti). Un dominio del mondo, se non più inglese, almeno anglosassone. Ma quest'ipotesi si scontra con l'incapacità, da parte dell'asse Londra-Washington, di esercitare un'egemonia perfino sui più stretti alleati: col loro rifiuto non solo di partecipare alla guerra, ma anche di votare una risoluzione all'Onu, Canada e Nuova Zelanda hanno affibbiato uno schiaffo alla favoleggiata unità anglosassone.
La seconda ipotesi è che la Gran Bretagna persista nella tradizionale linea politica di balance of power che risale al `700-'800, quando nelle guerre europee Londra appoggiava la coalizione più debole per poi passare dall'altra parte appena il rapporto di forza s'invertiva. Così la tradizionale alleanza con la Prussia contro la Francia fece posto al fronte comune con Parigi quando Berlino divenne troppo minaccioso. La versione attuale di questa strategia sarebbe costruire il ponte sull'Atlantico tra la "vecchia Europa" e gli Stati uniti. Curioso modo di erigere un ponte quello di scatenare una rabbiosa campagna antifrancese!
"Ma non dimentichiamo, dice Lloyd, che - paradossalmente - Tony Blair è il premier inglese più filo-europeo di tutta la storia britannica. In un paese dominato al 70% dagli euroscettici, Blair si era proposto di entrare nell'euro, impresa che adesso gli riuscirà difficilissima". Lloyd riversa su Jacques Chirac quasi tutta la responabilità della rottura atlantica (curiosamente, a Londra tutti minimizzano ruolo e peso della Germania, e persino la Russia di Vladmir Putin non è presa in conto nell'equazione geo-strategica): "Quando Chirac ha detto che avrebbe posto il veto in ogni caso, ha fatto il gioco di Blair e ha fatto rientrare una parte del dissenso laburista".
David Goodhart va ancora oltre sulla linea del "ponte sull'Atlantico", quando dice che le differenze tra Blair e Chirac sono solo tattiche, perché ambedue vogliono contenere l'unilateralismo americano, solo con mezzi diversi. Goodhart esprime le idee dei "blairiti di sinistra", per così può dire; auspica di far fuori "ora Saddam e poi Bush": persino nei circoli più vicini a Blair l'insofferenza per Bush e per i suoi falchi ha raggiunto livelli inimmaginabili e - tra i favorevoli e i contrari alla guerra - tutti dicono che con Bill Clinton sarebbe stato tutto diverso, e l'Onu avrebbe ingoiato la guerra con molta più facilità.
Goodhart mi dice che, per la guerra all'Iraq, ormai è ok, cosa fatta capo ha, e comunque c'erano buone ragioni per abbattere un dittatore, e forse anche per una guerra alla Siria, l'accordo ci sarebbe, "perché la Siria è uno stato odioso", ma "se l'America decidesse di prendersela con l'Iran, allora la Gran Bretagna non dovrebbe seguire". Gli ricordo allora che l'anno scorso mi aveva esposto esattamente la stessa posizione, solo che al posto dell'Iraq c'era l'Afghanistan ("guerra giusta") e invece del futuro attacco all'Iran c'era quello all'Iraq: i blairiti di sinistra sono sempre in ritardo di una guerra, a favore dell'attuale e contrari a quella futura.
Ma la linea della balance of power si scontra con una differenza fondamentale: nell'800, quando Londra spostava il suo peso, lo faceva da massima potenza mondiale, oggi è un peso medio. L'idea di poter lanciare un ponte sull'Atlantico è illusoria a meno di non sovrastimare, e tanto, il peso che Blair ha a Washington. È certo che Blair pensa di esercitare un'influenza sproporzionata al ruolo economico e militare inglese (che sta 1 a 10 come effettivi sul campo, e che si avvia a diventare 1 a 20 con i prossimi rinforzi Usa). Blair aveva chiesto più tempo per gli ispettori e gli Usa l'hanno negato; aveva spinto per una seconda risoluzione Onu e Washington se ne è infischiata; insiste per una soluzione in Palestina e le vaghe promesse di Bush hanno il naso lungo; ha chiesto che le Nazioni unite siano coinvolte nella gestione del dopoguerra in Iraq e gli hanno risposto picche.
Lloyd racconta un'altra storia, favolosa a un orecchio europeo: "In Kosovo, prima del '97, il governo Major era contro qualunque intervento. Fu Blair a convincere Clinton ad agire. Ed è stato Blair ha spingere nel `98 Clinton a iniziare l'operazione Desert Fox contro l'Iraq". Ancora l'illusione che Londra possa dirottare la politica americana dalle sue priorità. Torna in mente la battuta dell'ex canceliere tedesco Helmut Schmidt: "La relazione speciale tra Usa e Gran Bretagna è tanto speciale che ne è al corrente solo uno dei due".
Più verosimile è Lloyd quando dice che Blair considera la forza militare "uno strumento per attuare il bene" (e di bene deve averne fatto un sacco se, da quando è al potere, si è imbarcato in cinque conflitti: Desert Fox, Kosovo, intervento in Sierra Leone nel 2000, Afghanistan, e ora Iraq). Per Blair, Lloyd parla di una "dimensione etica della politica estera" e molla il fatidico termine: "liberal-imperialismo" su cui in questi giorni s'inciampa a ogni piè sospinto. Non è un'idea originale quella d'imporre l'impero in nome del progresso (o democrazia): non a caso il nome che viene accostato più spesso al "liberal-imperialismo" è quello di Willliam Gladstone (1809-1898) i cui governi gestirono l'espansione imperiale vittoriana. C'è in effetti una dimensione vetero-coloniale in questa guerra all'Iraq, con la prospettiva di un protettorato americano che avrà sull'Eufrate più potere di quello che aveva il Raj britannico sul Gange. Cosa di più radicato nella sanguinosa tradizione europea di una bella invasione in nome di Dio e dei valori? Compagni di scuola pensavano all'epoca che Blair sarebbe diventato un prete (anglicano). Si potrebbe parodiare una famosa battuta del dottor Johnson: "La religione è l'ultimo rifugio dei farabutti". Mi limito a ricordare a John Lloyd il monito di Carl Schmidt, sulla tirannia dei valori (lui ne sapeva qualcosa), e su come è pericolosa "una crociata del bene contro il male". Il dirigente del Financial Times sorride: "Mia moglie dice la stessa cosa, lei non è d'accordo con me, è italiana. Forse è una faccenda di diversa esperienza storica".

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …