Umberto Galimberti: L´assenza della ragione

26 Agosto 2003
Così parla il sentimento nella sua forma primitiva, quando è lasciato allo stato puro, nell´assoluta assenza di quel regolatore delle passioni che si chiama "ragione".
La ragione è una figura equidistante sia dal perdono sia dalla vendetta che, scaturendo dall´accecamento del dolore, non sa misurare la giusta punizione. La ragione, che deriva da reddere rationem, è un calcolo che sa commisurare la causa con l´effetto, la colpa con la punizione, evitando che l´effetto sia sproporzionato alla causa e la punizione alla colpa.
Al regime della ragione l´umanità è giunta con molto ritardo nel corso della sua storia, dopo aver visto nelle culture più avanzate, la greca e l´ebraica, gli effetti devastanti della vendetta, così ben illustrati nella cultura greca dalla tragedia e nella cultura ebraica da quell´occhio per occhio, dente per dente, vita per vita, che non faceva fare un solo passo avanti verso la pacificazione.
Ma la giusta contropartita al torto, il redde rationem in cui la ragione consiste, non può essere individuata dalla parte offesa, dove emotività e sentimento seguono la legge cieca del tutto/nulla, ossia della vita e della morte, senza mediazione, senza riflessione, senza proporzione, senza giusta misura. Per questo, tra i due contendenti che regolano i propri gesti solo sulla violenza delle passioni, occorre l´intervento di un terzo che, non coinvolto dal regime passionale, sappia valutare con quella freddezza che è il tratto tipico della razionalità. La ragione, infatti, è spassionata.
Per questo sono nati i tribunali: qui dove si amministra la giustizia che, rispetto alla vendetta, non soffre l´eccesso delle passioni le quali, nel commisurare la pena alla colpa, non conoscono la giusta misura. Se l´umanità, nella sua lunghissima storia, è arrivata negli ultimi duemila anni, e non dovunque e non sempre, a percepire i vantaggi di un giudizio pronunciato non dalla passione di un sentimento arroventato, ma da una ragione, se volete fredda in quanto spassionata, è perché troppo lunga e interminabile è stata la catena di sangue e di morte cui ha dovuto assistere quando il regime era quello della vendetta. Questo, diffondendo ovunque terrore, non consentiva al gruppo, alla tribù, alla popolazione quella crescita che solo la pacificazione consente. Una pacificazione che non si raggiunge col perdono (esso, quando non umilia, chiede troppo all´offeso), ma con la giustizia amministrata da terzi secondo le regole di quel redde rationem in cui la ragione consiste.
Che significa allora che a Rozzano si sentono espressioni che chiedono vendetta e non giustizia? Significa che le relazioni sociali lì sono regolate solo dalla furia del sentimento? Significa che la ragione e quel suo prodotto che è l´istituzione che amministra la giustizia disertano quella periferia? Se è così vuol dire che il faticoso percorso dell´umanità che ha portato a contemperare il sentimento con la ragione non ha ancora raggiunto quel luogo.
E siccome il contenimento razionale del sentimento è esattamente quel che chiamiamo cultura e civiltà, allora a Rozzano bisogna costruire scuole, cinema, luoghi di ritrovo e di socializzazione, punti di incontro e di scambio di idee.
E tutto questo bisogna farlo alla svelta, perché non si migliora il tasso di convivenza cambiando la fontana in piazza Duomo a ogni cambio di giunta comunale, ma offrendo occasioni e strutture concrete di processi educativi e di socializzazione alle periferie che, quando sono lasciate a se stesse, significa che gli abitanti sono lasciati a se stessi. E quando un uomo è lasciato a se stesso si fida di più dei suoi sentimenti, anche i più primitivi come il sentimento della vendetta, di quanto non si fidi della ragione che può farsi strada solo quando le condizioni minime di convivenza sono garantite.
Nasciamo tutti primitivi, e diventiamo civili quando avvertiamo che la convivenza secondo regole condivise è più vantaggiosa che l´abbandono all´impeto sentimentale. Ma per questo è necessaria una distribuzione massiccia di cultura che non si misura con i piccoli o i grandi eventi a cui di solito si dedicano gli assessori alla Cultura, ma con la costruzione di strutture che diffondono istruzione e socializzazione, e perciò consentono alla periferia di accedere a quel buon livello di regole di convivenza che siamo soliti chiamare vivere civile, dove la vendetta non è ospitata, perché da subito appare come il passato remoto di una storia.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …