Umberto Galimberti: L'Atlante del corpo sparito

26 Agosto 2003
Pensavano con il diaframma, presagivano con il petto, dicevano parole profetiche con l'ispirazione, mentre l’accelerazione del battito cardiaco segnalava la prossimità di amore. Così gli antichi vivevano il loro corpo. Una riserva infinita di significati di cui noi abbiamo perso non solo l’origine, ma anche la traccia. E ciò avvenne quando la scienza quattro secoli orsono ridusse il corpo a una sommatoria di organi, senza altro senso e altro significato se non quello della pura funzionalità. Per questo noi disabitiamo il nostro corpo e nei suoi moti, superficiali e profondi, altro non sappiamo leggere che benessere o malessere. Niente di culturale, niente di espressivo, niente di significativo. Al massimo un po' di cure estetiche per rispondere ai canoni di presentabilità.
Questa riduzione del "corpo" a "organismo" andò tutto a vantaggio dell’anima che sequestrò tutti i significati simbolici del corpo, come sempre accade allo spirito che vive e si alimenta dell'impoverimento della materia. Tra scienza e religione c’è molta più complicità di quanto si pensi. L’una e l’altra vivono e si alimentano della negazione del corpo come lo conosce il mondo della vita a cui, nella sua corrispondenza con Cartesio, faceva appello la regina di Svezia quando al filosofo obiettava che, per percepire il suo corpo non aveva bisogno di idee chiare e distinte, né di particolari costrutti fisico-matematici. La risposta di Cartesio non lasciò margini di incertezza: "Vedo che, nonostante il suo rango, lei pensa come il popolo".
Eppure proprio il linguaggio popolare conserva ancora una traccia dell’antico simbolismo, una memoria non estinta delle valenze di significato a cui i nostri organi rinviano, e perciò parla di un "pugno nello stomaco" per indicare un’offesa, di "reni spezzate" per un’irrimediabile sconfitta. Dice che "ci vuol del fegato" per un’azione che richiede coraggio, lo stesso fegato che uno "si rode" quando medita la vendetta. "Un nodo alla gola" sta per una commozione profonda che ci impedisce di parlare e di agire, quasi un arresto del nostro rapporto col mondo, perché dalla gola passa anche il respiro, nella cui accelerazione trova espressione l’ansia, mentre nel ritmo cadenzato e profondo c’è la padronanza del mondo e il governo di sé. Il cuore poi è una miniera di simboli perché è la sede dell’amore segnalata dall’accelerazione del suo battito, e insieme della morte segnalata dal suo arresto.
Amore e morte, e non amore e vita, sono i due poli in cui si dibatte l’esistenza, perché non c’è vita che si sostenga senza una parvenza d’amore, reale o immaginario che sia. Per questo gli amanti, che avvertono nella morte non tanto la fine della loro vita quanto la fine del loro amore, si dicono l’un l’altro: "Ti do il mio cuore". Se il tuo vien meno c’è il mio, e se vien meno il mio c’è il tuo. In forza del nostro amore noi sopravviveremo oltre i limiti della nostra vita. Per l’amore è al cuore che si fa appello, non ai genitali, che pure sono adibiti per "fare" l’amore. Perché i genitali appartengono a una vita che non ci riguarda. Essi sono lì a testimoniare non il nostro amore, ma l’amore che la specie ha di se stessa. Anche se da qualche tempo abbiamo sciolto il godimento dalla riproduzione, e sottratto il gesto sessuale al destino per consegnarlo alla libera scelta, non abbiamo interrotto quel nesso che dalla morte (di cui l’orgasmo è una simulazione) porta a una nascita, se non di un figlio, certo di noi stessi che, dopo una vicenda d’amore, non dovremmo più essere quel che eravamo. Ri-nati. A riprova che la vita è generata da amore.
La "nostra" vita che il cuore cadenza, non quella della specie a cui sono preposti i genitali, sempre accompagnati da un vissuto di non compiuta appartenenza, quasi un luogo di perdita verso un’ignota e impercepita alterità. Siamo infatti soggetti d’amore, ma anche funzionari della specie. Questa doppia significazione, che nei genitali si esprime, ci confonde. E dalla confusione ci difende il pudore.
Questo subire gli interessi della specie, che ineluttabilmente non coincidono con gli interessi dell’individuo, ci riporta alla nostra condizione animale e alla vergogna connessa, per cui tutto ciò che avviene "alle nostre spalle": dalla "pugnalata alla schiena" all’amore come lo facevano Dafne e Cloe imparando dalle pecore che portavano al pascolo, ci fa prendere tutte quelle precauzioni per avere "le spalle coperte", perché il "dietro" del nostro corpo, che lo sguardo non raggiunge, è l’ignoto che ci sor-prende, ci prende alle spalle a nostra insaputa. La nostra schiena è l’inquietante, dove solo gli altri hanno potere. Di qui tutte quelle espressioni che siamo soliti usare ogni qualvolta subiamo ad opera di altri cose sgradevoli che non avevamo previsto. Abbiamo potere solo davanti a noi. Dietro c’è la nostra vulnerabilità. Davanti abbiamo gli occhi la cui posizione frontale segna, al dire di Platone, la differenza tra l’uomo e l’animale. Di fronte (davanti alla nostra fronte) abbiamo il mondo che si offre alla nostra visione, non circoscritta, come quella dell’animale ricurvo alla ricerca immediata del cibo, ma aperta al progetto e all’ideazione. "Vedere" e "ideare" hanno la stessa origine nel verbo greco "idein". Le idee sono visioni che trascendono il visibile. Per questo i poeti, che per gli antichi greci percepivano oltre l’immediatamente percepibile, ricevevano dagli dei il dono della cecità in cambio dell’"epopteia", della "vista superiore". Abitati dal dio e perciò entusiasti (en-theos) traevano dal profondo del loro respiro parole "ispirate". Non "specchio dell’anima" come noi usiamo dire con il nostro spiritualismo riduttivo, ma specchio del mio intero me stesso. L’occhio, infatti, ci rivela. Non tanto agli altri che di noi leggono quello che già presumono di noi, ma a noi stessi. Sempre Platone a ricordarcelo: "Se uno, con la parte migliore del proprio occhio (la pupilla), fissa la parte migliore dell’occhio dell’altro, vede se stesso". Per questo fatichiamo così tanto a reggere lo sguardo. Non è tanto per non rivelarci agli altri. Non vogliamo rivelarci a noi stessi. Non vogliamo vederci. Non vogliamo troppa consapevolezza che ci faccia smarrire quel tanto di ingenuità e ignoranza di noi che preservano lo spazio dell’insolito e dell’ancora sorprendente. Il privilegio che Platone concede all’occhio fonda la cultura greca che privilegia il vedere e l’ideare, quindi quel mai dismesso ricercare che è apertura senza confini alla conoscenza. In ciò la differenza della cultura greca da quella ebraica che, alla visione dell’occhio privilegia l’ascolto dell’orecchio che non deve essere sordo alla parola di Dio. Due culture antitetiche, poi fuse in Occidente, che hanno nel privilegio di due diversi organi del corpo la loro matrice. Una, che di visione in visione fonda l’oltrepassamento del già noto, l’altra che, nell’ascolto della parola e nella sua trasmissione, fonda la tradizione e mantiene le connessioni con la radice. Punto di incontro è la parola che tiene in consegna sia verità sia menzogna. E la bocca che la pronuncia diventa arbitro sia di parole di verità spesso disertate da persuasione, sia di parole persuasive che non contengono un grammo di verità. Organo equivoco la bocca, sia quando si esprime con le parole, sia quando si affida a quel gesto che è il bacio, a cui si consegna sia l’amore, sia il tradimento. Perché tante sono le potenze espressive del corpo e infinite le possibilità dei suoi messaggi che, dopo la riduzione del "corpo" a "organismo" operata dalla scienza, noi rischiamo di non percepire più. Divenuti sordi ai suoi messaggi che più non sappiamo decifrare, il nostro corpo è diventato una scatola chiusa che noi consegniamo all’estetica per la sua parte esterna e alla scienza medica per quella interna. Per l’estetica noi ci separiamo dal nostro corpo con cui più non ci identifichiamo e perciò lo dobbiamo ricostruire. In palestra, dall’estetista, ogni mattina prima di uscire di casa. Non più il nostro corpo come veicolo nel mondo, ma il nostro corpo come ostacolo per essere al mondo. Agiamo sul nostro corpo come se non coincidessimo più con lui, ma abitassimo una regione diversa, lontana, separata. Un io decorporeizzato che, invece di coincidere con il proprio corpo per agire nel mondo, agisce sul proprio corpo per costruirlo secondo quei canoni collettivi di bellezza che fanno del nostro corpo un manichino, dove a dettar legge è la moda del tempo. E così operiamo una scissione tra l’io e il nostro corpo, come è noto, in un registro più tragico, ad ogni esperienza schizofrenica che vive il proprio corpo come altro da sé. Sull’altro versante, quello interno, tutto è diventato una scatola nera dove solo i tecnici della scienza medica sanno fare opera di decifrazione. Qui il simbolo diventa sintomo, e la simbolica del corpo diventa sintomatologia. Quando si ammalano, i nostri organi non ci raccontano più la nostra vita: i nostri vizi, le nostre virtù, le nostre abitudini, i nostri traumi, le nostre inclinazioni, lo stile, che vita facendo, ha assunto la nostra esistenza. Quando si ammalano i nostri organi ci allarmano, e, invece di raccontarci cosa va o non va della nostra vita, diventano subito presagio di morte. Come se noi morissimo perché ci siamo ammalati, mentre il nostro corpo sa che ci ammaliamo perché fondamentalmente dobbiamo morire. Il nostro corpo infatti conosce solo il consumo e il godimento e nulla sa di quell’immortalità di cui va fiera l’anima, e che la scienza medica, in alleanza col desiderio infinito, neppur troppo nascosto nelle cantine della nostra anima, vorrebbe far sognare al corpo. Ma il corpo conosce il suo limite, riverbero della sua saggezza, per cui Nietzsche può dire, e noi in accordo con lui: "C’è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza".

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …