Paolo Rumiz: Il ghiacciaio alla deriva

27 Agosto 2003
MACUGNAGA - La montagna di neve ti viene addosso in un mare in tempesta di acqua e detriti, enorme come un capodoglio, sospesa in una luce diafana, alla deriva in un caldo caraibico. Ce l’hai davanti che gronda, sgocciola, si contorce, emette cupi rumori. Ogni tanto un blocco si stacca dalla sua mostruosa fronte grigia, precipita, esplode, erutta una pioggia di cristalli, si disintegra come avesse la dinamite in corpo. Un colpo secco, un boato, poi l’eco si moltiplica in un labirinto di altre montagne di ghiaccio. Non è un iceberg, e nemmeno un leviatano. E' il ghiacciaio del Belvedere, sotto la parete Est del Monte Rosa, la più grande delle Alpi. O meglio, «era» il ghiacciaio del Belvedere. Oggi è una massa che galleggia sulla sua stessa acqua, scorre su un fiume di fusione, avanza trenta centimetri al giorno. Scende a valle, mentre ovunque - dal Bianco alla Jungfrau - le nevi eterne arretrano. Succede da due anni, quando la soglia dello zero termico è schizzata oltre i quattromila metri. Il ghiacciaio si è messo in moto, e ora deraglia, come un treno. «Qualcosa si è staccato in alto, non c’è più nulla che lo agganci alla roccia», brontola Teresio Valsesia, sindaco di Macugnaga, che mi accompagna in quota. E' un pezzo d’uomo, mastica il suo toscano con rabbia. Il ghiacciaio lo controlla almeno una volta alla settimana. La vita della sua gente dipende da quella massa in movimento che in due anni ha percorso duecento metri, mangiato una teleferica, abbattuto foreste, provocato frane e valanghe, spostato montagne di pietrisco, cancellato due piste di sci, generato un lago da tre milioni di metri cubi e reso inutile persino la segnaletica dei sentieri. «Qui fa tutto la montagna», spiega puntando il binocolo. Passiamo la morena, traversiamo il serpentone giurassico che avanza sotto una scorza di pietrisco. Sono le tre, un’ora rovente, e la lotta tra gli elementi è spietata. Luce contro ombra, caldo contro freddo, colori contro bianco e nero, mondo vegetale contro mondo minerale. La bestia respira, ansima, si gonfia, si affloscia, straripa, si contrae. Dai crepacci esce un soffio umido a zero gradi, dentro tuona un fiume immenso. Fuori, 25 gradi. Mulinelli di farfalle grigie seguono le correnti ascensionali di calore, le colorano quasi. Un alpinista tedesco racconta di aver trovato un nido d’api, l’anno scorso, a quattromila metri. Ormai, nella vampa, la parete delle pareti ha perso ogni consistenza e rilievo. Saliamo verso il rifugio Zamboni, base di tutte le salite sulle parete più himalaiana d’Europa, un anfiteatro di tremila metri. Il tempo si mette al bello, a destra della punta Doufour vedi che da Zermatt arriva il vento giusto, quello che pulisce le nubi. Dall’alto Macugnaga è bellissima, con le sue case in legno così diverse dalla triste architettura in pietra della montagna piemontese e lumbard. Con la pianura, poi, il distacco è totale. Quelli della Val d’Ossola, giù a basso, se ne fottono del dio tibetano che li sovrasta. Stan lì nel loro territorio dilapidato, tra ghiaie e capannoni, senza un cartello che dica: guardate lassù, la più grande parete alpina. Bianca, immensa sulla Padania come l’Himalaia sulle pianure indiane. Marmotte in allarme tra le pietraie, arriviamo al rifugio. E' semivuoto. «Finite le allegre masnade degli anni Sessanta-Settanta» spiega il gestore. Oggi gli italiani non vano più in montagna. Figurarsi sul Rosa, e figurarsi oggi con questa peste climatica. Già all’alba - quando la cima si accende come un fiammifero - comincia a crollare tutto. Allora, il Rosa non si limita a uccidere. Ti inghiotte. Il cimitero di Macugnaga, accanto al tiglio millenario che ricorda la fondazione del paese, è pieno di lapidi e targhe senza corpo. La guida Casimiro Bich cadde sulla Est nel 1925, e fu trovato 46 anni dopo a otto chilometri di distanza. E il fratello che venne a riconoscerlo, aveva già ottant’anni. Il Rosa. Una volta era il passaporto per l’Himalaia. Il battesimo, il collaudo finale delle grandi spedizioni extraeuropee. La mattina, la piazza del paese si riempiva di gente che puntava i binocoli sulle cordate lassù. Oggi arriva altra gente. Geologi e naturalisti, da tutto il mondo, a studiare la bestia che muore. Anche le guide di Macugnaga vengono, ma per monitorarne l’agonia. Scende una sera color avorio, sale la Luna, la brezza rinfresca, lentamente tra gli elementi torna la tregua e di conseguenza il silenzio. In rifugio c’è una svizzera, una laureanda in geologia. E' lì da settimane. Si chiama Lucia Fischer, ha le guance belle rosse come Heidi e colora le sue mappe con un evidenziatore arancione. Spiega che qui tutto cambia così in fretta che i libri scritti dieci anni fa sul Rosa non servono più a niente. E' affascinata da questa montagna dove il ghiaccio corre più svelto dei tracciatori di sentieri. Racconta che più in basso, in mezzo a tante acque torbide di fusione, c’è un’unica fonte di acqua limpidissima. Si chiama «Brunnen». Significa «fonti», nel paleo-tedesco della lingua Walser, i mitici vallesi che colonizzarono le alte valli costruendo attorno al Rosa una ghirlanda di villaggi. La leggenda locale vuole che quell’acqua venga dalla «Valle perduta». Una Shangri-La, nascosta da qualche parte tra i ghiacciai, fertile. E' il mito, spiega, della terra d’origine, quella abbandonata prima del grande trasloco qui, in Valle Anzasca. Era una credenza forte. Così forte che quando l’alpinista inglese John Tyndall, arrivato qui all’inizio dell’Ottocento, manifestò il suo scetticismo, fu preso per matto. Ma ancora oggi qualcosa resiste. I vecchi chiamano «Vischpu» il torrente Anza. Lo stesso nome del torrente di Zermatt, Visp. Un modo per dire che quei due versanti del Rosa condividono la stessa acqua e le stesse sorgenti. Annotta, prime stelle, ultimo sigaro. Domani sarà una gran giornata.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …