Umberto Galimberti: Il filosofo: tra l'io e la natura, il dubbio

23 Settembre 2003
Quando la nascita e la morte si incontrano nello stesso istante, senza che la vita abbia avuto il suo corso e la morte il tempo di arrivare, allora il non senso esplode nella sua espressione assoluta. E non c'è capacità umana che possa decifrarlo e ricondurlo sulle sponde della sensatezza. La libertà di scelta della donna, il suo diritto di decidere della vita e della morte, le sofferenze per la famiglia e per una vita in tono minore sono tutte buone ragioni che funzionano solo quando il problema è posto in termini astratti, e vita e morte restano due idee. Non guerra nelle viscere del corpo che, a differenza della mente, non scandisce un ragionamento diluendolo nei suoi passaggi logico-razionali, ma chiama gli estremi di quell'arco di tensione, che sono la nascita e la morte, a fronteggiarsi senza mediazioni. In quel momento la forza persuasiva dei ragionamenti, con cui siamo soliti supportare le decisioni, implode miseramente, e la guerra che si attiva nel corpo scatena forze che fanno impallidire tutte le idee. Le confondono, le immiseriscono, le riducono a un ignobile silenzio, rendendo ridicola la mente che le aveva partorite nel tentativo di trovare un senso, là dove senso non c'è. Perché i processi di natura non hanno senso, hanno solo un inesorabile decorso che noi possiamo interrompere, senza però poter evitare il contraccolpo di natura. Esistono infatti in noi due soggettività. Una che dice "io", i miei progetti, le mie aspettative, la mia visione del mondo carica di senso, e una che dice "natura" e interessi della specie, per la quale le sorti dell'io, le sue idee, i suoi scenari non hanno la minima rilevanza. Già Leopardi avvertiva: "Ah natura, natura/perché non rendi poi quel che prometti a lor,/perché di tanto in tanto inganni i figli tuoi". Ma prima di Leopardi, Goethe aveva paragonato la natura a una grande danzatrice "che ci rapisce nel vortice della sua danza e poi ci lascia andare e cadere dalle sue braccia, immemore e dimentica. La vita è la sua invenzione più bella, e la morte è il suo artificio per avere molta vita". Questa donna che ha raccontato il suo dramma, ma più in generale tutte le donne che fanno nascere e morire, ben conoscono la guerra tra l'io e la natura. A promuovere i processi impersonali della natura, lo diceva Schopenhauer, è in un certo senso una sola potenza: "La volontà di vivere". A promuovere i processi impersonali dell'io è il tentativo di trovare a questa vita un senso, cui la natura è completamente disinteressata. Siccome le due soggettività sono raccolte nella stessa persona, la guerra, comunque volga, ha esiti laceranti. Se l'io decide e interrompe il processo di natura, la natura fa sentire il suo contraccolpo desertificando tutti i progetti dell'io. Se invece è la natura a vincere portando a termine i suoi processi, spetta poi all'io farsi carico di quel che la natura, a propria insaputa e in perfetta indifferenza, ha generato. In entrambi i casi l'io esce sconfitto, perché essendo a sua volta un evento di natura, non può disporre a suo piacimento della natura. Per questo un giorno gli uomini, stanchi dell'indifferenza della natura, alzarono il loro sguardo e cercarono un Dio nel cielo, capace di dare un senso al non senso della natura. Nacquero le religioni. Alla loro origine c'è un atto di non rassegnazione dell'uomo all'insignificanza dell'esistenza. La donna che ci ha raccontato il suo dramma non crede in Dio, che gli uomini hanno ideato per reperire un senso all'esistenza, però ha conservato la persuasione che la vita debba avere un senso. E, non reperendolo nei processi della natura, è costretta a cercarlo nelle sue decisioni, di cui alla natura non interessa nulla. Incontra allora una natura che non riesce più a leggere come madre benevola, ma come implacabile vendicatrice. In realtà la natura non è né l'una né l'altra cosa, è assoluta indifferenza, dove vita e morte non hanno significati umani carichi di senso, ma esprimono solo cadenze biologiche, dove reperire un senso è pretesa eccessiva, quando non inganno umano. La tragedia greca, con l'onestà propria di chi non ricorre a speranze ultraterrene, queste cose le aveva capite. Perciò al satiro, che aveva spiegato a Re Mida questa terribile verità, mette in bocca queste parole: "Ora che sai, meglio per te sarebbe stato non esser nato. Ma siccome sei nato, la cosa migliore che io possa augurarti è di morire presto". In questo dilemma cadono tutti quelli che cercano, nascosto, laggiù, nei ricettacoli di vita, un senso. E quando non lo trovano si disperano o si uccidono. Meglio vivere la vita più umilmente, sapendo di non esserne noi gli autori, ma piuttosto gli eventi casuali di una volontà di vita che, nella più assoluta indifferenza, ci genera e ci fa perire, secondo il suo ritmo, non secondo le nostre decisioni. La donna del drammatico racconto, tra le due soggettività che ciascuno di noi ospita - la natura e l'io - ha scelto la decisione dell'io, ribellandosi all'indifferenza del processo di natura che voleva comunque la vita, senza nessun interesse per la sorte individuale del vivente e di chi se ne sarebbe preso cura. La sua decisione io la considero "religiosa" perché, anche senza Dio, insegue un'ipotesi di senso che, essendo irreperibile nella natura, ha portato gli uomini a inventare Dio, donatore di senso. Buona o cattiva che sia, la sua scelta ripercorre l'intero cammino dell'uomo che, dall'alba dei suoi giorni, si è sempre ribellato all'indifferenza della natura e al determinismo dei suoi processi, incurante delle sorti individuali degli uomini.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …