Michele Serra: Tra religione e Stato

04 Novembre 2003
Nella concitata discussione seguita al gesto concitato di un estremista religioso come Adel Smith, solamente Tullia Zevi, voce emerita degli ebrei italiani, ha voluto tenere fermo il principio dell’assoluta laicità dello Stato come unica vera garanzia della libertà di ciascuno, compresa la libertà religiosa. La Zevi non vorrebbe che il crocifisso fosse affisso nelle scuole pubbliche. Stando ai sondaggi la sua è una posizione controvento, specie adesso che il clima è invelenito da quel poco o tanto di iconoclastia sgarbata che spira dalla sentenza di Ofena. Quasi tutti, anche i non credenti, riscoprono e ridicono il non potersi non dire cristiani, spiegano che il cultuale è anche culturale, che la familiarità con il Cristo morente è, nel nostro paese come in altri, così radicale da non poter essere discussa, e tanto meno censurata. Tutte cose giustissime, non fosse che la Zevi, in linea di principio, ha sommamente ragione: i simboli religiosi, nei luoghi dello Stato, invischiano lo stesso Stato in una inevitabile e spinosa commistione di ruoli e di significati. Tolte la bandiera e l’immagine del Presidente della Repubblica, che appartengono a tutti i cittadini, ogni altra icona, comprese quelle più affini ai sentimenti di maggioranza, è inevitabilmente di parte, e non può essere la percentuale soverchiante a giustificarne la legittimità. Perché ogni minoranza, anche infima, si sentirà in diritto di chiedere che anche il proprio simbolo confessionale non venga discriminato, così come la democrazia e il buon senso impongono. E una parete patchwork, aperta alle icone di ogni chiesa e setta, sarebbe comunque sempre più imperfetta e confusa di un muro bianco, immagine non perfettibile dell’assoluta neutralità dello Stato di fronte ai molteplici convincimenti religiosi dei cittadini. Messomi controvento anch’io, credo però che lo spirito di tolleranza, per essere tale, non può porsi sullo stesso terreno, provocatorio e conflittuale, dell’integrismo religioso che ha suggerito a Adel Smith di chiedere la deposizione del Cristo di Ofena. La potenza dei simboli è tale perché i simboli racchiudono storia e memoria, raccontano le attitudini, lo spirito e soprattutto lo sguardo di chi ci ha preceduto. Un crocifisso su un muro è anche la somma degli sguardi che lo hanno riconosciuto, per amarlo o semplicemente rispettarlo, nel passaggio delle generazioni. "Sacro", in questo senso, è ogni simbolo, perfino quelli che incarnano infelicità e sottomissione, perfino i Lenin abbattuti, i busti dei tiranni scalciati e sputati dalla folla furente. A Berlino, città per altro di meravigliosa vitalità, colpisce e dispiace scoprire che il Muro non ha lasciato che minime e quasi introvabili tracce, che della sua monumentale, assurda, swiftiana imbecillità, così importante nella storia del mondo, non resta una memoria significativa. Direi dunque che le tracce di ogni credenza, da quelle salvifiche a quelle più truci, meriterebbero di non essere mai dissolte. Il chiodo e l’alone scuro che Adel Smith preferirebbe vedere al posto del piccolo simbolo da lui osteggiato non fanno pensare, difatti, a un igienico rimedio, ma a una cancellazione brutale, parente poverissima dell’attacco ai Budda afgani voluto dai taliban. L’iconoclastia è figlia della sopraffazione e della rimozione, della paura degli altri. E allora che fare, se si condivide il principio di Tullia Zevi (nessun simbolo religioso nei luoghi dello Stato) e però si nutre rispetto e affetto per le icone religiose, specie quelle che descrivono secoli interi della nostra storia popolare? Una modesta proposta (e una improbabile soluzione, dirò poi perché) è questa: sancito il principio, si stabilisce che in ogni nuovo edificio pubblico - scuola, tribunale, ospedale - non devono essere esposti simboli di fede, perché lo Stato è la casa di tutti. Quanto al già edificato, e già arredato da crocifissi e altro, si condona munificamente, nella profonda e serena convinzione che ogni muro debba rimanere come è stato concepito e osservato dai milioni di italiani che ci sono passati davanti. Non un solo Cristo verrebbe deposto, non un solo nuovo crocifisso verrebbe imposto ai cittadini della nuova Italia multietnica. E, visti i tempi dell’edilizia pubblica, per decenni e forse secoli conviverebbero le tante vecchie aule con il crocifisso e le poche nuove aule senza. Compromesso virtuoso, decantazione lenta e paciosa della questione. Perché ho definito improbabile questa soluzione? Perché la laicità dello Stato è, nei fatti, alquanto fragile e indefinita, e nessuna maggioranza parlamentare è pensabile senza i "placet" e il potere di veto dei cattolici, come dimostrano le recenti vicende della bocciatura del divorzio breve e della legge contro la libera scelta in materia di fecondazione assistita. La cosiddetta "paura" del partito neoguelfo non è una paura, è la presa d’atto (desolata, per quanto mi riguarda) di una perdurante e se possibile ancora più tenace commistione tra morale religiosa e morale pubblica. Purtroppo ci saranno nuovi Adel Smith, nel futuro, che vorranno risolvere con pessime maniere le questioni che lo Stato non ha saputo o potuto risolvere secondo diritto. Le reazioni intolleranti avranno sempre più spazio in un paese che ha tale disistima della propria identità nazionale da affidarne la "difesa" al moralismo restrittivo. Per onorare il crocifisso, imporlo è la via peggiore. Ma proprio questa sembra la strada scelta.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …