Umberto Galimberti: Quell’eros italiano nelle donne madri di Fellini

04 Novembre 2003
Dovessi trovare una cifra per la produzione cinematografica di Federico Fellini non avrei esitazione a dire: il sogno. Ma non il sogno a cui tutti pensiamo quando auspichiamo la realizzazione di un desiderio, e neppure il sogno visualizzato come enigma o ridotto a indovinello, com’è nell’uso nobile o decadente della psicoanalisi. Il sogno di Fellini non è neanche il sogno profetico degli antichi, oggi degradato all’affabulazione degli oroscopi e delle vane parole dei maghi, così come non è il collasso della realtà negli abissi bui del delirio e del vaneggiamento della mente. Fellini sogna con un piede ben saldo nella realtà, e con l’altro ai suoi bordi. Per usare un termine alluvionale, il suo sogno «esonda». L’acqua conosce il letto del fiume, ma anche le sue adiacenze e i prati confinanti, e le cose e le opere degli uomini. Tanti sono i protagonisti del teatro del sogno, non solo l’io ben ancorato nella sua storia e nella sua geografia, ma tante altre figure, tratte da un passato che non passa e da un futuro che anticipa scenari che il presente neppure sospetta. C’è infatti nel sogno di Fellini l’arcaismo dell’italica gente, dove la donna è più madre che donna, più seno che volto, dove la religione è più miracolo che fede, è più adunata di folla che percorso dell’anima. Anche la sensualità non gode di se stessa, nel tripudio della festa e della trasgressione, ma lambisce la delusione, lo sconforto, il vuoto così pieno di tripudio, affinché l’insensatezza appaia in tutto il suo fragore. Il sentimento è infedele e distratto, ha la durata di una notte, la fugacità di uno sguardo, la brevità di un saluto. Non è trama di una storia. La sua profondità deve giocare con la leggerezza. C’è sempre qualche interruzione che ne preclude la continuità, che lo fa frammento. Irrelato, discontinuo. Nessun racconto è una storia. La trama è sempre interrotta. Così è l’andamento della nostra anima. La storia la costruiamo noi dopo, come quando ci raccontiamo un sogno collegando i frammenti che non avevano alcuna direzione, certo non quella che gli diamo noi, affamati come siamo di senso e dimentichi che il senso è un’esigenza dell’io, non degli altri attori dissennati che fanno la loro comparsa nel teatro del sogno che Fellini riprende in diretta, prima che l’io faccia il suo racconto e riporti le acque esondate nel letto ordinato del fiume. Arcaismo italico e anticipazione profetica. Guardando da Rimini, sua città natale, la distesa del mare, il sogno di Fellini lambisce la costa antistante e vede l’altra gente ondeggiare paurosamente nell’acqua, finché la nave la raccoglie e, disponendola ai suoi bordi, lascia accadere la contaminazione dell’altro mondo con il nostro mondo. La notte avvolge il buio della nave nel tripudio di una festa tra linguaggi incomprensibili, perché la serietà dei codici ha ormai fatto naufragio. E non c’è più terraferma, dove il sogno possa trovare i suoi limiti, o almeno le resistenze che gli impediscano di esondare. E allora la pratica religiosa si confonde con la sensualità della visione, non importa se della Madonna o di una donna; la venerazione del padre con la sua demitizzazione fra fanciulle discinte che prima lo rallegrano e poi lo confortano; le tenebre di un castello dove processioni discontinue non si sa se portano al tripudio del sesso o alla mistica di un aldilà che non rifiuta la contaminazione con l’aldiquà; l’addio all’innocenza dove la sofferenza del congedo si distrae col desiderio di una sessualità portata alla deriva, dove non si sa più se la distanza che ci separa dal godimento è più forte della rinuncia. Non si sa. Perché tra tutti i caratteri che l’umanità ha da sempre attribuito ai sogni - dalla profezia degli antichi al codice segreto dell’anima - Fellini ha preferito l’incertezza dei sogni. Per dirci che là dove non si sogna, là dove la vita sembra garantita dal «sano realismo», anche là il sogno e la sua incertezza lambiscono gli orli e tutto diventa precario. Perché precaria è la vita, incerto il suo corso. Se la vita, infatti, è l’inganno dell’insensatezza, allora liberiamo tutte le maschere. Ma non facciamolo in modo dionisiaco, piuttosto in quel modo delusivo che dice: godi pure la tua festa, ma sappi che ogni festa è breve, come un sogno fatto all’alba, quando la luce del mattino dà a tutte le cose i suoi contorni, riconduce l’acqua nel suo alveo, incanala la forza dell’insensatezza in quel senso comune che gli uomini hanno inventato per sopravvivere. Ma non dimentichino gli uomini - questo il messaggio di Fellini - che anche la vita è un sogno, non esente da quella caratteristica dei sogni che è la loro incertezza, la loro fragilità, custodite da quell’amico di memoria che siamo soliti chiamare oblio. Non un oblio che cancella ogni traccia. Qualcuna rimane, per non far naufragare Dio nella sua monotonia, per togliergli in parte la sua tetra serietà.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …