Maurizio Maggiani: Jack London, Martin Eden

18 Novembre 2003
Dunque una nuova riedizione del lontano romanzo di Jack London. Bene. Bene perché deve essere finita da tempo l'edizione BUR a lit 3200, che è poi quella chi io possiedo e che ho comprato nell'edicola profumeria cartoleria in un bel paese di mare qualche anno fa. La mia vecchia la preferisco a questa nuova, ma è solo per via di questioni personalissime. L'odore ad esempio, l'inderogabile odore che prende la carta quando per molto tempo è stata depositata accanto a saponi profumati e scatole di matite; la traduzione della Oriana Previtali, che per me va benissimo anche se forse è un po' meno dotta e precisa dell'enaudiana di Enzo Giachino, traduzione "alta" che per l'appunto mal si confà alle cartolerie di mare e alle letture aritmiche delle gite pedestri; la confezione, che negli Struzzi è elegante e sicura e non si lascia gualcire e sbrindellare, così che fa di London materia duratura per un classico da conservare con cura, mentre il mio di London è tutto a pezzi, letto a comodo mio per le strade e le stazioni ferroviarie, destinato a morte precoce per consunzione, ma usato senza riguardi borghesi -direbbe lui-, letto con la stessa fervida noncuranza con cui è stato scritto nel 1907 su una brutta barca in rotta per le isole dei Mari del Sud.
Bella operazione comunque quella einaudiana, e forse anche coraggiosa. Non mi pare che Jack London, e in particolare Martin Eden (come tre o quattro altre cose che potremmo leggerci di lui, intimamente collegate a Martin: La Strada, nei defunti cataloghi di Savelli e Guanda; Il popolo dell'abisso, Oscar in circolazione oggi a £ 8300, sono i primi che mi vengono in mente), siano in riga con i correnti gusti di lettura. Ci sono troppe cose nelle storie di quel bastardo socialista che suonano male; anzi, ci sono troppe cose e basta. Non è questa epoca da sovrappiù, men che meno di quello speciale sovrappiù esiziale per il bon ton che proviene dall'autobiografia di un grande sperperatore di vite e saperi e soldi e ideali.
Martin Eden è un'autobiografia. Dessimo retta a quello sbruffone di Sailor Jack ogni sua opera lo è, tessera accanto a tessera per comporre il puzzle di quelle tre o quattro vite che egli ha preteso di aver vissuto, magari riuscendoci davvero. Certamente London è stato tanto onesto da finire la sua vita allo stesso modo in cui è terminato il suo romanzo. Quasi allo stesso modo, visto che lui si è ammazzato con la morfina a Honolulu, mentre Martin si è annegato buttandosi dal piroscafo prima di arrivarci; lui l'ha fatto a quarant'anni, Martin a ventitré, ma non è certo. E' presumibile che anche il resto sia roba "soffiata nel vetro", come dicono per apprezzamento i vagabondi che Sailor Jack incontra per le sue strade; ma in fondo questo importa pochissimo perché se leggi Martin Eden sai subito che è un romanzo e tu parti e ti c'infili dentro come nel burro. Dentro il di più di quelle pagine, il di più che proviene da una generosità di scrittura incolmabile da qualsivoglia genere letterario e narrativo. Se c'è un unico nell'opera di London (e, dio mi perdoni, lo voglio azzardare) è un suo spendersi nel raccontare senza risparmio, fuori misura, come un bruciarsi nelle pagine di una storia, che sarà anche la sua, ma in fin dei conti che diamine è solo una storia. Come la rivoluzione socialista. Vostro per la rivoluzione si firmava, vostro per questa mia storia ti par di capire quando incominciano a staccarsi le pagine del libretto da due soldi troppo cincischiato, troppo riletto, in mancanza di quelle cento pagine che vorresti ci fossero ancora dopo il finis.
La storia di Martin Eden comincia con una porta e finisce con un oblò. La porta è quella di una ricca famiglia borghese e si apre ad un giovane e povero marinaio, l'oblò è quello di un piroscafo e si apre per permettere a un giovane e ricco scrittore di sprofondare nell'abisso dell'oceano. Martin Eden è l'uno e l'altro nell'arco di due brevissimi anni. Sicuramente anche Jack London, anche se non con tanta rapidità di metamorfosi. Nel mezzo della storia c'è dentro una vita di amore, letteratura e politica; senza priorità: i fattori possono essere ordinati a piacere, tanto ce n'è un unico grumo. Il Marinaio passa quella porta e s'innamora; smette di lavorare per vivere e inizia a studiare per essere amato da Ruth. Legge e scrive fino a non vivere più, a non mangiare più, a non dormire più, e diventa uno scrittore molto povero e molto bravo, uno studioso colto e cattivo, amato dalla Ruth quel tanto da risultarle affascinante e incomprensibile. Quando il Marinaio saprà per certo di aver vinto la sua furente battaglia contro tutte le avversità, quando è finalmente uno scrittore ricco e famoso e rispettato, davanti a cui si sciolgono d'incanto le barriere di ferro tra le clasi sociali, per sé non gli rimane più niente: non l'amore, non l'identità, non la letteratura. Non la vita. "La vita era diventata per lui una bianca luce incandescente, che ferisce gli occhi affaticati di un malato." ... "In verità era ormai penetrato nella Valle delle Ombre".
Perché? Perché la letteratura non salva dalla vita e non conforta l'uomo? Forse. Perché invece lo danna, lo aliena da sé e dal mondo? Perché dal proprio destino, dal proprio posto nella classe sociale, nella gerarchia biologica (quanto la mena il Marinaio con la biologia, con l'evoluzione, con la selezione, con Spencer e compagnia!), nell'orizzonte degli eventi umani. non si può impunemente evadere, infrangere le solide leggi della foresta e del branco? Forse. La Casa del Lupo, la splendida villa del Marinaio, bruciò la notte della sua inaugurazione, la sua barca da 75000 dollari progettata per scappare verso i Mari del Sud, fece una sola disastrosa crociera.
Ogni nuova lettura mi lascia intatto il dubbio, come intatta mi rimane la certezza dell'orrido splendido del finale, quando Martin è già nell'abisso dell'Oceano, spintosi contro la propria vita ormai troppo a fondo. "Poi udì un lungo rombo, e gli parve di cadere per una vasta scala interminabile. E al fondo di quella precipitò nella tenebra. Questo fu l'ultimo pensiero che ebbe. Di essere caduto nelle tenebre. E nel momento stesso in cui n'ebbe coscienza, cessò di averne coscienza." Nella traduzione Einaudi, mentre nella Bur, e io -chissà perché?- la preferisco, "E nell'istante in cui seppe, cessò di sapere."
E mi permetto di pensare che non sia un dubbio e una certezza da poco. E nemmeno di me solo. Bisognerà ricordare che questo libro, che i buoni maestri si guardano bene da inserire nella lista dei cento da portarsi sull'ultima spiaggia, è stato almeno per due generazioni di giovani tra la prima e la seconda guerra, in tutto il mondo in cui è stato tradotto, una sorta di breviario, il libro da portarsi sulla strada. Storia esemplare; senza conforto, senza riscatto, senza speranza. Ma furente, orgogliosa, innocente e intangibile. Dio sappia perdonare quei Marinai che s'innamorano e si mettono a scrivere; gli eviti almeno lo schiudersi di una porta borghese.
Ma magari oggi tutto ciò è molto lontano. Martin Eden in veste Struzzi, si adatta ad una lettura più pacata e casalinga. Attenzione allora! Questo libro rischia di rimanervi un po' troppo noioso, declamatorio, vacuamente aggressivo.

Maurizio Maggiani

Maurizio Maggiani (Castelnuovo Magra, La Spezia, 1951) con Feltrinelli ha pubblicato: Vi ho già tutti sognato una volta (1990), Felice alla guerra (1992), màuri màuri (1989, e poi 1996), Il …