Michele Serra: Intervista a Italo, "autoferro" bolognese, che racconta la sua rivolta
Lui poi ha la barba, e usa parole come padrone, come lotta di classe, non ci fosse un computer, nell'altra stanza, il salto temporale parrebbe di trent'anni secchi, i trent'anni trascorsi dalla "lotta dura senza paura".
Solo che è adesso, decisamente adesso, Natale 2003, che questo clamoroso inciampo sociale, l'insurrezione degli "autoferro", arriva a stendere le nostre città opulente. E l'anacronismo (se di questo si tratta) non ha certo le esili basi ideologiche dell'irriducibilità o della nostalgia. E' la riscoperta della sofferenza sociale, il vero anacronismo, il vero schiaffo che ha colpito al volto il paese. E la reazione dei bolognesi, qui fuori, al disagio di un lunedì di shopping parzialmente impedito dallo sciopero spontaneo del mattino, è indispettita ma anche cauta, anche pensierosa, in qualche caso perfino solidale.
"I conti sono presto fatti. Con gli accordi firmati quattro anni fa, nel
biennio 2002-2003 gli autoferro avrebbero dovuto avere un aumento mensile di 106
euro, per rimediare all'inflazione. Siamo arrivati a dieci giorni dalla
scadenza, e l'accordo è ancora inapplicato. Cgil Cisl e Uil hanno ricontrattato
quell'accordo al peggio, accettando, a saldo di due anni di aumento mai pagato,
un'una tantum che non copre neanche la metà del dovuto. La domanda da farsi,
allora, è una sola: perché i confederali hanno accettato di ricontrattare una
cosa già ampiamente stabilita?".
Gliene faccio un'altra, di domanda: perché mai quell'accordo non è mai
stato applicato, visto che è stato firmato?
"Perché avrebbero dovuto farlo le Regioni, ma lo Stato, dopo essersi
inventato la riforma federale, ha tagliato i fondi agli enti locali. Che non se
la sentono o non possono imporre nuove tasse. E poi, dal momento che è passato
il maledetto principio che i servizi pubblici non sono più servizi, ma sono
aziende che devono a tutti i costi fare utili, la logica è cambiata.
L'indebitamento nei servizi, che in uno Stato sociale dovrebbe essere coperto
dal prelievo fiscale, è visto come un tabù inaccettabile. L'utente lo chiamano
cliente. Gli autisti vengono assunti come apprendisti, ma le pare possibile che
un conducente di autobus, già regolarmente patentato, possa essere un
apprendista?"
La legge che regolamenta lo sciopero nei servizi di pubblica utilità è del
'90. In quattordici anni, salvo sporadiche effrazioni, ha retto. Perché proprio
adesso questa ribellione generalizzata? Infrangere una legge è così facile,
così legittimo?
"Senta, quella legge è una sostanziale abrogazione del diritto di
sciopero per intere categorie. Con il salario divorato da un'inflazione reale
doppia rispetto al 2,6 ufficiale, era inevitabile che l'esasperazione portasse a
dare una spallata con la sola arma che ci resta. Se non lo sciopero, cosa?"
Ma è il classico sciopero che colpisce prima di tutto i cittadini. Non le
sembra che il clima rischi di diventare il classico tutti contro tutti?
"Io di discussioni dure, qui a Bologna, ne ho avuta una sola. Ho cercato di
spiegare che il lavoro ha una dignità, è un valore, non può essere solo una
merce da comperare quando serve e da buttare nel cesso quando non serve più.
Perché è questa la situazione, in un paese a capitalismo ingessato come il
nostro, finto liberista: l'unica variabile, l'unica cosa fluida è il lavoro.
Tutta colpa della concertazione".
La concertazione? Non è stata una grande conquista sindacale, il salto in
avanti che permetteva al mondo del lavoro di assumere come punto di vista
l'interesse generale?
"L'unico punto di vista che conta, sindacalmente parlando, è il conflitto
tra chi lavora e chi paga il lavoro. E' la lotta di classe. Solo quella porta
più democrazia e più diritti nei luoghi di lavoro".
Ma se ognuno pensa a difendere solo i propri interessi di categoria, non si
rischia l'anarchia corporativa?
"Vent'anni fa la grande accusa al mondo del lavoro era di volere
l'appiattimento salariale, l'egualitarismo che mortifica le singole categorie.
Oggi le categorie vengono retribuite quando sono utili, liquidate quando
smettono di esserlo. Logico che ci si difenda per categoria. Ma non credo
proprio che non esista un filo rosso tra le varie lotte. Il filo rosso sono i
diritti, è la dignità del lavoro".
Dicono però che l'arcipelago dei lavoratori a posto fisso, rispetto
all'oceano dei precari, sia molto meglio garantito...
"Adesso le dico quanto siamo garantiti. Il salario medio è 1100 euro al
mese, quattordici mensilità, l'orario di lavoro è in genere di 35-36 ore nelle
aziende pubbliche e di 40 in quelle private. Per dire che bell'affare sia la
privatizzazione, per chi lavora. Nessun riconoscimento di attività usurante,
non riconosciute le malattie professionali, che pure ci sono. Siamo la categoria
con la percentuale più alta di divorzi e separazioni, in assoluto: vorrà pur
dire qualcosa. Quanto a me, sono così garantito che avrei dovuto andare in
pensione nel 2004, avendo cominciato a lavorare a 14 anni. Con la riforma Dini,
andrò in pensione nel 2007. Con la Maroni, meglio ancora: nel 2008".
Diciamo, allora, che un'eventuale partita tra precari e salariati è la
classica guerra tra poveri...
"Diciamo che, con la riforma Biagi, il lavoro flessibile diventa un incubo,
spacciato per un'opportunità..."
Il professor Biagi è stato ammazzato dalle Brigate Rosse. Questo è un
problema, per lei, quando discute della sua riforma?
"Questo è il problema dei problemi. Il terrorismo è una follia, usarlo
contro le lotte sindacali pure. Il modo più spiccio per criminalizzare il
dissenso".
E se il dissenso dovesse criminalizzarsi?
"Non credo che avverrà".
Non crede, oppure lo spera soltanto?
"Non credo. Il terrorismo poté radicarsi, nell'Italia di allora, perché
c'era una forte base ideologica che lo animava. Oggi l'ideologia non c'è più,
nel bene e nel male, e quello che vedo, piuttosto, è un clima argentino, da
assalto ai forni. La condizioni dei salariati stanno peggiorando con una
rapidità impressionante, ci sono problemi di bilancio mensile, altro che
estremismo."
Se lei fosse segretario della Cgil, a quale obiettivo punterebbe?
"(Ride)... segretario della Cgil... Non mi ci vedo.... Comunque come prima
cosa cercherei di reintrodurre la scala mobile. L'erosione del salario è
cominciata da lì".
Ma un referendum ha bocciato questa sua idea. Come si fa?
"La gente era male informata. L'hanno imbrogliata dicendo che la scala
mobile innescava l'inflazione, ma era una balla. Era l'inflazione a innescare la
protezione del salario. Come si vede adesso, senza scala mobile l'inflazione
mette in ginocchio le fasce più deboli".
Quanto peso hanno, tra gli autoferro, i sindacati di base come il suo?
"Circa il dieci per cento della categoria, forse qualcosa in più. Ma in
questi giorni, se siamo diventati i protagonisti della lotta, è perché
moltissimi iscritti a Cgil Cisl e Uil sono venuti dalla nostra parte. E non
poteva essere diversamente: le cifre parlano chiaro, le cifre mica sono
concertabili".
Come andrà a finire il referendum sugli accordi appena firmati a Roma?
"Credo proprio che gli accordi non passeranno".
E dunque? E poi?
"E dunque, non so. Si vedrà. Io continuerò a fare il sindacalista. Non ho
paura del conflitto, il conflitto è il sale della democrazia e dei
diritti".
Fuori, Bologna stiracchia fino a sera il suo lunedì nero, in realtà un lunedì
grigio, appena più trafficato del normale, magari un po' più ansioso, con i
pensionati che hanno aspettato inutilmente, in mattinata, mugugnando sotto le
pensiline. La tangenziale, verso Casalecchio, è ingolfata di macchine che
tornano cariche dall'ipermercato di Berlusconi e dall'Ikea, un ingorgo consueto,
da pancia piena, che non ha parentela alcuna con la paralisi da sciopero
selvaggio.
Se il sindacalista di base Italo Quartu ha ragione, se vede giusto, prima o poi
questo genere di ingorghi da benessere potrebbe diradarsi, perché il bilancio
familiare di moltissimi italiani non suggerisce più di spingersi nella
Babilonia scaffalata degli ipermercati. Questo lo sa bene anche il sindacato
grande, quello che che concerta e che cerca di chiudere i contratti. E che deve
prepararsi, qui e ora, a un clima sociale molto duro, che se non si chiama più
lotta di classe, si chiama però conti che non tornano più.
Michele Serra
Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …