Saggio sconnesso sulla poesia e sulla vita...

22 Febbraio 2014

Nei giorni in cui mi credevo un genio e morivo di fame e nessuno mi pubblicava, perdevo molto più tempo di adesso nelle biblioteche. La cosa migliore era trovare un tavolo vuoto dove il sole entrava dalla finestra e sentire il sole sul collo e sulla nuca esulle mani, e poi non stavo più così male per il fatto che tutti quei libri fossero stupidi con le loro belle copertine rosse e arancioni e verdi e blu e che stessero lì quasi come una presa in giro. Era meglio prendere il sole sul collo e poi sognare e sonnecchiare e cercare di non pensare all’affitto e al cibo e all’America e alle responsabilità. Se fossi un genio o meno non mi impensieriva quanto il fatto che non volevo essere parte di niente. La spinta bestiale e l’energia dei miei simili mi sorprendeva: il fatto che uno potesse cambiare ruote tutto il giorno o guidare un furgone di gelati o essere a capo del Consiglio statunitense o tagliare la pancia di un uomo durante un’operazione chirurgica o uccidere, era al di là della mia immaginazione. Non volevo iniziare. Non voglio tuttora. Ogni giorno che riuscivo a sfuggire a questo sistema di vita mi sembrava una grande vittoria. Bevevo vino e dormivo nei parchi e morivo di fame. Il suicidio era la mia arma più letale. Il solo pensarci mi dava pace; sapere che la gabbia non era chiusa del tutto in realtà mi dava un piccolo sprazzo di forza per resistere nella gabbia. La religione sembrava un gioco – truccato, un gioco di specchi, e sentivo che se doveva esserci una Fede, la fede doveva iniziare dentro di me senza la scorciatoia di pappe pronte, di dèi preconfezionati... Le donne sembravano parte di tutto il resto: stimavano un valore per se stesse e poi estraevano un premio, ma per la mia sensibilità e per il briciolo di anima che possedevo sembrava che richiedessero molto più del loro valore. E avendo osservato mio padre, quel mostro bruto che mi ha imbastardito in questa triste terra, avevo capito che uno poteva lavorare tutta la vita e rimanere comunque povero; il suo stipendio spariva per comprare cose di cui aveva bisogno, piccole cose, tipo automobili e letti e radio e cibi e vestiti, che, come le donne, richiedevano un prezzo incredibilmente più alto del loro valore effettivo e lo mantenevano povero, e perfino la sua bara fu l’insulto finale alla decenza: tutto quel bellissimo legno laccato per i vermi ciechi dell’inferno.
Poi, però, poteva anche capitare di diventare ricco e anche questo poteva non significare niente. Ridete pure se volete. Accetterò tutti i soldi che mi manderete, ma in realtà saprò che non avrò in mano niente. Se i ricchi sono la nostra razza superiore voglio andarmene in fretta. Ho visto crani di maiali morti addentare mele morte che erano meno brutti; anzi, in confronto non erano brutti affatto. Là, seduto, al tavolo della biblioteca, morto di fame, sotto il sole. Percepivo tutto: la guerra di merda, la noia, la morte, il ronzio delle mosche...
Allora ero giovane e perduto, adesso sono vecchio e perduto. Eccomi lì seduto in quella biblioteca, il sapere di generazioni era lì e per me non valeva un cazzo, e non esisteva una voce viva al mondo che avesse detto qualcosa. Lì seduto tra i libri a pensare almodo in cui uccidono le persone, devono usare cacciavite e pinza e gettare acido negli occhi; devono tranciare le gambe di netto; devono metterle in gabbia con le tigri. Il modo in cui uccidono le persone, non ne lasciano vive neanche un paio su un milione, ma chi lo fa, e perché?
E se uscivo dalla biblioteca mi ritrovavo per strada a dover passare davanti a porte chiuse a chiave, a finestre che di sera erano sbarrate. Donne che quando mi vedevano mi guardavano con sufficienza perché ero vestito di stracci, ma, quelle stesse donne, sarebbero andate a letto con un grasso porco perché possedeva una sfilza di cavalli da corsa e di banchi dei pegni. Attraversavo strade di uomini morti che si muovevano, parlavano, avevano nomi, dignità e proprietà, ma che in realtà erano morti. Ogni nuova via piena di facce era un sogno d’orrore – facce perfide e secche-ossute e facce di merda... mi girava la testa dopo una simile sfilata, non per la fame ma per la consapevolezza che vivevo e avrei vissuto in questa vita, nel mondo dei morti.
E poi la biblioteca, la mia stanza per quel giorno, muri finalmente! Nessuna panchina, niente ferro verde o assi di legno. La biblioteca! La mia sola casa. Avevo iniziato a leggere presto, a quattordici anni, e dovevo mettere la lampada del comodino sotto le coperte per nascondere la luce perché mio padre ordinava luci spente alle otto, perché così poteva raccogliere le forze per il giorno seguente, essendo un moderno folletto laborioso delle sgobbate inutili.
Bene, ho iniziato nella sala Filosofia e Religione e quando sono arrivato alla sala Attualità con le sue copie del “New YorkTimes” ero ancora una scommessa da niente per la vita, e i rasoi e i tubi del gas e i ponti e il veleno per topi di Thomas Chatterton stavano ancora litigandosi l’esclusiva. Ecco di nuovo il problema annoso: questioni morte di uomini morti con punti di vista morti, pagine sprecate, sprecate! Il vecchio imbroglio, la vecchia beffa di una conoscenza che in realtà non esisteva, rivestita da una terminologia accattivante e colorita. In realtà trattavano quasi sempre di cose che non avevano nulla a che fare con ME; e ’fanculo l’ego, cosa c’era di più importante (stavo quasi per dire impotente) di me? Ero in bilico sul serio con un piede dentro e uno fuori dalla fossa e loro stavano a parlare di dolcetti alla finestra! O peggio ancora, scrivevano paginate di vaneggiamenti immaginari e poi finalmente ARRIVAVANO A QUALCOSA!, ma poi, CAMBIAVANO SUBITO! All’epoca credevo che si trattenessero; adesso sono più scaltro: semplicemente non avevano niente da dire. Eppure, anche allora nutrivo sospetti su di loro. Ero conscio della loro terminologia-prigionia: quelle parole elaborate, lunghe e arzigogolate erano diversivi, stampelle, debolezze. E allora ero solito considerarle “stronzate farcite”: parlare di cose inutili con terminologia inutile.
Eppure ero già attratto da questa disciplina: quante risposte potevano esserci e che forza c’era (anche se sembrava debolissima) nell’arte creativa della scrittura – romanzo, racconto, poesia. E credo più con l’amore che con la ragione (e quale ragione più giusta potrebbe esserci?). Da allora ho deciso che la POESIA ha lo stile più immediato, più dolce, più ritmico. Perché scrivere un romanzo quando potresti dirlo in dieci righe? Perché scrivere dieci romanzi quando ne puoi scrivere diecimila? DELITTO E CASTIGO, naturalmente, non avrebbe potuto essere scritto in dieci righe, e anche se non sono d’accordo con il finale che è stato forzato dalle convinzioni pressanti delle ipocrisie della nostra società, va comunque considerata una bella opera, e rendo atto a quei pochi romanzieri, ma non ci sono comunque scusanti per quegli altri furbastri – un decimo – che sono seguiti. Gli interrogativi di Delitto e castigo sono una delle poche cose che tengono in vita un giovane pazzo morto di fame in mezzo all’insulsaggine delle nostre biblioteche pubbliche. Sherwood Anderson è stato bravo finché ha capito che poteva fregarli con modi affettati: una cosa che era già stata fatta notare a Faulkner (uno dei più grandi impostori schifosi della sua epoca, universalmente riconosciuto) e tempo dopo a Hemingway, con atteggiamenti dei quali più tardi diventò erede di se stesso. Eppure la poesia è il buon cavallaccio sul traguardo: non puoi ignorarlo; prima o poi comparirà il suo numero. Vai avanti.
Quindi stavo nei paraggi sulle panchine del parco e andavo in biblioteca, con i bibliotecari che annusavano i miei vestiti, e mi sono imbattuto negli articoli di critica letteraria sulla “KenyonReview” e sulla “Sewanee Review”, e per una strana ragione questa roba non sembra niente male quando non mangi da un paio di giorni. Credo sia per il senso di imperturbabilità, e a me piace il profumo delle pagine non ancora lette e quel linguaggio dolce-duro mischiato come se sapessero veramente cosa stava succedendo e potessero parlarne dietro a una specie di facciata di delicatezza ed erudizione. Che linguaggio musicale ed efficace! E che modo carino di pugnalare! Leggevo queste riviste erudite quasi ufficiali, mi donavano brevi momenti di piacere – quattro o cinque minuti e poi era finita, IMBROGLIATO NUOVAMENTE: le riviste in realtà non dicevano niente di reale, niente delle strade là fuori, delle panchine del parco, delle facce, della quasi inutilità di vivere. Parlavano di uomini morti che erano diventati abbastanza sicuri e posati per poterne parlare.
Inventavo racconti e li scrivevo a mano perché non avevo la macchina da scrivere e spesso neanche l’indirizzo, e mi immagino i molti editori grassi accaldati che se la ridevano e che li cestinavano tutti, tranne Whit Burnett della vecchia rivista “Story” che sembrava interessato a un certo tipo di stile disinvolto, e anch’io buttavo via quelli che mi rispediva – e poi finalmente ne ha accettato uno. Era già da un po’ che avevo la poesia in testa. Era qui dietro, da qualche parte, nel cranio. Credo che iniziai a pensarci da quella volta che stavamo viaggiando a ovest verso Sacramento con quelli delle ferrovie. Credo che mi sia venuto in mente mentre dividevo la cella con il pericolo pubblico numero uno Courtney Taylor; credo che mi sia venuto in mente quando scrivevo con una macchina da scrivere portatile in prestito sulla testa di un filippino mentre scappavo da una stanza distrutta durante una sbronza a LosAngeles. Ma cazzo, sapete com’è l’America. Presto o tardi, nello spazio di tempo che va dalla scuola in avanti te lo sbattono in faccia. Ti dicono, in parole povere, che il poeta è un rammollito. E non sempre hanno torto. Una volta, nella mia follia, mi capitò di frequentare un corso di scrittura creativa al L.A. City College. Quelli sì che erano rammolliti, bello! Meravigliosi vigliacchi, leziosi, carucci. Che scrivevano di ragni deliziosi e di fiori e di stelle e di picnic con la famiglia. Le donne erano più massicce e più forti degli uomini, ma anche loro scrivevano malissimo. Erano cuori solitari e si divertivano a stare insieme; si divertivano a spettegolare fitto; e si beavano della loro collera e delle loro opinioni barbose prive di originalità. L’insegnante si sedeva sul pavimento su un tappeto sferruzzato a mano al centro della stanza, i suoi occhi spenti e senza vita rilucevano di stupidità, e gli si raccoglievano tutti intorno, sorridendo verso l’alto al loro dio, le donne con la gonnellina a balze e gli uomini con le loro chiappette sode da maschietti esplodevano di gioia. Leggevano le loro cose tra loro e ridacchiavano e preparavano e bevevano tè e mangiavano biscottini.
Che ridere! – io stavo in disparte appoggiato al muro, con lo sguardo vuoto, incazzato e tentavo di ascoltare e mi resi conto che anche quando litigavano tra loro era invece una specie di tregua tra menti limitate.
“Bukowski,” mi chiese un giorno l’insegnante, “perché non dice mai niente? Cosa ne pensa?”
“Sono tutte stronzate,” dissi, “tutto quello che è stato detto in quest’aula è una stronzata.”
E quella è stata la poesia migliore del semestre. Tre settimane più tardi, dopo aver avuto un po’ di fortuna ai dadi nel pisciatoio di un bar locale, dormivo sulle spiagge di Miami Beach e lavoravo mezza giornata come magazziniere da Di Prima.
È come la vecchia barzelletta sul tempo: tutti parlano di poesia ma nessuno può farci niente. Be’, generalmente, e ancor più che nelle altre Arti, la tradizione la fa da padrona. Non vedo perché la parola scritta non possa essere eseguita come una pennellata o un suono. Sicuramente non abbiamo scuse per fossilizzarci e permettere alle altre Arti di rubarci la scena. Ma la tradizione ha lavorato e gli scimmiottatori si stanno impegnando per arrivare agli urrah! urrah! cautamente. La tradizione è un osso duro, dolcezza – se devi smaltire una sbronza ti prendi un alka-seltzer. Se vuoi scrivere una poesia vai a rileggerti Keats e Shelley, o se vuoi sembrare moderno ti rileggi Auden, Spender, Eliot, Jeffers, Pound e W.C. Williams, e.e. cummings. L’intera storia sa di marcio. Non esistono cinque soli uomini in America capaci di buttar giù quattro versi autentici. Il gioco è condotto ancora dai rammolliti, dai sognatori, dalle lesbiche e dai professori d’inglese.
Consideratemi pure un tipo terra-terra, se volete, senza istruzione, ubriacone, fate voi. Il mondo mi ha forgiato e io ho forgiato quel che ho potuto. Ho portato sulle spalle mezzo manzo sanguinante che un minuto prima era ancora vivo scagliandolo contro lo stupido uncino in cima al furgone bucando la cartilagine; ho ramazzato i cessi delle donne mentre voi dormivate; ho rubato e sono stato derubato; ho pregato davanti al tabellone delle scommesse; sono stato preso a bastonate dentro a un cesso per aver fatto il filo alla pupa di un gangster; sono stato sposato con una donna che aveva un milione di dollari e l’ho lasciata; ho strisciato ubriaco per i vicoli da costa a costa; ho lavorato ai distributori di benzina, in una fabbrica di biscotti per cani, ho venduto alberi di Natale, sono anche stato caporeparto; camionista, usciere, mi sono ritrovato a cercare stivali in una fabbrica in Texas; ho vissuto per un anno su uno yacht e ho imparato ad azionare il motore ausiliario e ho fatto l’amore con la donna di un tizio ricco, pazzo, con un braccio solo che si credeva un genio a suonare l’organo e io dovevo scrivere il testo per le sue opere del cazzo, ed ero quasi sempre ubriaco fradicio e anche lui era quasi sempre ubriaco fradicio e ha funzionato finché è morto, ma perché continuare? Il tema è la poesia.
Il tema è noioso.
La poesia deve divenire, deve aggiustarsi da sola. Whitman ha capito l’esatto contrario: io dico che per avere un grande pubblico bisogna prima avere della grande poesia. Non l’avevo mai detto prima, ma adesso mi sono spinto così in là scrivendo tutto questo che forse posso anche affermare che Ginsberg è stato la forza che ha risvegliato la poesia americana dai tempi di Walt. Peccato però, cazzo, che sia omosessuale. Peccato, cazzo, che Genet sia omosessuale. Non che sia peccato essere omosessuali, ma è un peccato dovercene stare con le mani in mano e lasciare che degli omosessuali ci insegnino a scrivere. Whitman, a quanto pare, rincorreva i marinai. Quell’uomo virile con quei baffi bianchi, bianchissimi da pensatore, con quel bellissimo volto! ...rincorreva i marinai!
Ti senti di dar torto agli studenti quando dicono che i poeti sono rammolliti? Ti immagini Whitman che dà un pizzicotto alla gamba insofferente di un marinaio e sogghigna? E riesci a vedere tutti gli altri?
Gli altri di voi, uno o due, devono ancora riprendersi. Credo di scrivere roba discretamente buona, ma non ancora abbastanza buona. Del resto sto invecchiando, bevo troppo, parlo troppo, ed è giunto il momento per questo burbero terra-terra di dire la sua...

finalmente succede
quei ragazzi di scuola dalle facce dure
abbassano i pugni e le mazze e
le pietre
e ascoltano il
potente
...e.e. cummings in bronzo.
eretto sugli spiazzi, davanti al bordello e
alle superiori...
il vecchio Ezra torna a casa all’età
di cent’anni
tatuato con geroglifici cinesi e viene
eletto governatore del New Hampshire.

E adesso sento la vecchia nella stanza accanto che accudisce mia figlia nella culla: squeeee! squeeee! squeeee!
È bello e allo stesso tempo è un peccato vedere cosa riescono a fare a un uomo, ed è un peccato vedere quello che hanno fatto a me, pur essendo stato prudente e istintivo. Direi che un poeta deve stare all’occhio con il suo lavoro, il suo uccello e il suo ego se vuole sopravvivere più di un istante. Ma la prima cosa da fare è annullare l’abbonamento alla “Kenyon Review” e abbonarsi qui a “Ole”, dove rabbrividirai per quello che leggerai e riderai per gli errori d’ortografia e di punteggiatura. Ma ti sentirai comunque meglio. Ingrasserai sette chili e inizierai ad andare a letto con tua sorella o con la moglie del tuo migliore amico. C’è una possibilità quasi per tutto.
Anche di finire questo articolo.
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Tratto da "Azzeccare i cavalli vincenti"

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“L’arte vera non solo non è capita ma viene anche temuta” Charles Bukowski ritorna con una raccolta di scritti già pubblicati in vita ma che qui postulano una continuità, un’unità di tono, un preciso e vario dispiegarsi di temi. Che si…