Arnoldo Foà su "Storie di ordinaria follia"

22 Febbraio 2014

Attualmente leggo Charles Bukowski, il suo Taccuino di un vecchio sporcaccione e le Storie di ordinaria follia. Si tratta di un genere particolare di letteratura, anzi di non-letteratura, che, a parte le millanterie, le dissacrazioni di cui è intrisa, muove da una fantasia che ha dell’incredibile. Non è solo volgarità e grottesco, c’è secondo me qualcosa di più profondo, specialmente nei momenti in cui Bukowski parla di se stesso e della sua vita: le sue considerazioni sul genere umano, il suo accanimento contro la letteratura finalizzata a false filosofie, o contro le ipocrisie di certi letterati o poeti, sono gli aspetti inquietanti dell’opera. Alla falsa tristezza del quotidiano egli oppone una gioia personale per il grottesco: di qui la sua pornografia esasperata, assurda. In fondo, c’è una certa filosofia: dobbiamo guardare in noi stessi e scoprire le nostre vergogne; non esiste un modello di verità da imporre sugli altri: i campi di concentramento ieri, i gulag sovietici oggi testimoniano la necessità di quest’ammonimento. Lo stile? Ritmico, quasi poetico (da verso libero); lo dimostra la mancanza di punteggiatura, che ci obbliga a una lettura attenta non solo al contenuto, ma anche alla forma.

Tratto da “Prospettive libri”, dicembre 1982

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Storie di ordinaria follia di Charles Bukowski

La biografia di Bukowski include due tentativi di lavorare come impiegato, dimissioni a cinquant’anni suonati, “per non uscire di senno del tutto”, e vari divorzi. Al tempo in cui scrive questi racconti Buk ha cinquant’anni, le tasche vuote, lo stomaco devastato, il sesso…