Marco D'Eramo: Viaggio nel nuovo sud Usa. Le università d'élite per la borghesia nera.

10 Maggio 2004
Eleganti, le ragazze nere sciamano nei prati verdi sotto un cocente sole primaverile quando entro nel campus dello Spelman College, accolto da Lorraine Robertson, addetta alle relazioni pubbliche. Lo Spelman è un Hbcu, mi dice Lorraine con quella passione tutta americana per le sigle, dove Hbcu sta per Historically Black Colleges and Universities - università e college storicamente neri - ed è contrapposta alla sigla Pwcu: Predominantly White Colleges and Universities - università e college a predominanza bianca. Questo tipo d'istituzione è ignota, e impensabile, in Europa (dove caso mai la separazione avviene per linee religiose). Sembra pazzesco che nel 2004 ci siano ancora università definite per razza. Questi atenei furono creati dopo la guerra di secessione (1861-5) quando fu affermato il principio "uguali e separati": ristoranti per soli bianchi, cinema per soli neri e naturalmente scuole di tutti i gradi segregate. Erano le cosiddette leggi "Jim Crow". Perciò se voleva ricevere un'istruzione universitaria, un nero doveva iscriversi in un ateneo per soli neri.
Ma da allora sono passati più di 120 anni: Dopo gli anni `60 del XX secolo la segregazione sembrava superata. Eppure per accorgersi del contrario, basta visitare il sito web (www.nafeo.org) della National Association for Equal Opportunities in the Higher Education (Nafeo), l'associazione che raccoglie i 108 atenei neri degli Stati uniti. Ma perché mai negli Stati uniti prosperano ancora questi monumenti al separatismo razziale, se non di autosegregazione?
È per cercare di capirlo che mi dirigo verso la collina, appena a sudovest di downtown Atlanta, dove l'uno vicino all'altro sorgono i campus di quattro storici Hbcus: i college Spelman (per sole ragazze), Morehouse e Morris Brown, e la Clark Atlanta University (Cau).
Adesso il Morris Brown ha chiuso per bancarotta: tra i quattro atenei, era quello che aveva criteri d'ammissione più lassisti, considerava una missione aprire le porte dell'istruzione universitaria al maggior numero possibile di neri. Ma è stato rovinato da una gestione incauta e dalla depressione degli ultimi tre anni: crollate le azioni e ridotti i profitti, corporations e privati hanno tagliato le donazioni.
La Clark Atlanta University ha 5.000 studenti, di cui 1.200 graduate. Gli studenti vengono da famiglie con un reddito abbastanza basso: 48.000 dollari l'anno (un operaio della fabbrica Mercedes di Tuscalosa in Alabama prende 60.000 dollari l'anno), tanto che il 98% degli studenti riceve un aiuto finanziario di qualche tipo per potersi iscrivere (l'iscrizione annua costa 13.000 dollari per gli studenti undergraduate e 14.000 per i graduate). Anche la Cau ha attraversato un momento di crisi economica: le donazioni sono diminuite proprio quando l'università si era lanciata in una politica di espansione. "Abbiamo chiuso vari programmi, per esempio il programma undergraduate di Engineering, e il programma graduatesulle donne afro-americane. Abbiamo licenziato 130 dipendenti su 900 e 75 insegnanti su 350. È stata una cura dimagrante durissima, ma non puoi spendere più di quel che incassi", mi dice nel suo ufficio Joel Harrel, obeso e in continua traspirazione mentre mi parla. Harrel è vicepresidente agli affari studenteschi della Clark Atlanta University (negli Usa il rettore di un ateneo è il suo "presidente", che affida ai vicepresidenti i vari settori della gestione universitaria).
Morehouse e Spelman sono invece l'élite. Lo Spelman è il migliore college nero per ragazze di tutta la nazione, ed è inserito nella lista dei primi 100 colleges di tutti gli Stati uniti (negli Usa esistono circa 35.000 colleges e università). Lo frequentano studentesse più ricche, come dimostra il fatto che il 35% delle ragazze non riceve nessun aiuto finanziario (mutui a parte). "Noi competiamo con università come la Duke o lo Smithsonian", mi dice la vicepresidente addetta alle iscrizioni, Arlene Wesley Cash, sorriso accogliente e figura matronale: "Il nostro stato finanziario è sano ma non ricco (healthy ma non whealthy) e non intendiamo avere più studentesse, puntiamo sulla qualità: abbiamo un tasso di abbandono solo del 7% nel primo anno e del 25% nei quattro anni, è molto basso. E il 65% delle nostre diplomate intraprendono studi post-graduate". Quest'anno frequentano lo Spelman 2.143 studentesse, giunte da 41 stati degli Usa e da 15 paesi stranieri. Solo il 20% delle ragazze sono indigene, cioè provengono dalla Georgia. "Molte vengono dalla California, dallo stato di New York e dal Maryland" dice Arlene Wesley Cash. Come mai dal Maryland (lo stato di Baltimora)? "Perché moltissimi alti funzionari federali lavorano a Washington ma vivono in Maryland, e quindi lì vi è una forte concentrazione di alta borghesia nera".
Il fatto che tante studentesse vengano qui a studiare, a migliaia di km da casa, può dipendere dall'eccellenza di livello attribuita allo Spelman. Ma così non è: la Clark Atlanta University è meno prestigiosa, accetta la metà delle domande di iscrizione, mentre lo Spelman accoglie solo un terzo delle domande, eppure anche alla Cau il 52% degli studenti viene da fuori Georgia e il secondo stato di origine, per numero di iscritti, è la California, seguita dallo stato di New York, Texas e Pennsylvania, mi dice Joel Harrel.
Ora da Los Angeles ad Atlanta sono più di 3.500 km, come tra Mosca e Barcellona. Cosa spinge uno studente a questo spostamento? La parola chiave è "ambiente" nel senso dell'ecologia (umana), environment. "Vengono qui per trovare un environment favorevole", dice Joel Harrel. "Vengono perché si sentono a disagio in un environment ostile" mi spiega William Boone, professore di scienze politiche alla Graduate School della Cau. "Ci sarà pure una ragione, ribadisce Joel Harrel, se i 108 atenei neri producono più studenti post-graduate di tutte le altre 34.900 università americane messe insieme! Tutti i grandi leader afro-americani sono venuti fuori dagli Hbcus: Martin Luther King ha studiato a Morehouse, l'ex sindaco di Atlanta ha studiato a Dillard (New Orleans) e a Howard (Washington DC), Jesse Jackson ha abbandonato l'università dell'Illinois a Chicago per andare a studiare in un Hbcu della North Carolina".
William Boone insiste sul desiderio di "sentirsi tra noi": "C'è infine la fierezza di essere maggioranza, di non essere più un isolotto di colore in un mare di bianchi. C'è la volontà di riconnettersi con la propria cultura". Non a caso, sul rapporto tra identità e autosegregazione, Boone mi traccia un paragone con la cultura ebraica.
Gli ex allievi (alumni) di questi atenei sono uniti da una solidarietà tenace, come quella delle Fraternities e Sororities delle grandi università "bianche". Fra loro si sono strutturati nei decenni riti sociali e mondani: "Devi vedere quando le squadre di football (quello americano con la palle ovale) di Morehouse e Atlanta s'incontrano a Columbus (cittadina la confine tra Georgia ed Alabama): è tutta una serie di feste e di ricevimenti; la città si riempie di macchinoni. È lì che vedi la vera borghesia nera", mi dice lo storico John Lupold.
E poi c'è il "fattore retaggio", dice Arlene Wesley Cash: cioè i genitori che sono stati in questi colleges ed è per questo che vogliono mandare i loro figli nello stesso ateneo in cui loro hanno studiato.
Queste università sono solo l'aspetto scolastico di un più generale separatismo nero: le chiese protestanti sono in gran parte autosegregate; vi sono ospedali per neri, giornali e magazines per soli neri, associazioni industriali e commerciali esclusivamente per neri (si tenga conto che nero negli Stati uniti non significa avere la pelle nera; molti "neri", come per esempio il segretario di stato Colin Powell, hanno la pelle più chiara di un italiano meridionale: "nero" è chiunque non sia completamente bianco). Una ragione di questo persistente separatismo sta in quegli che Gunnar Myrdal chiamava "i vantaggi degli svantaggi": senza la segregazione non vi sarebbero stati primari neri di ospedali neri, presidi neri di licei neri, direttori neri di giornali neri. Il separatismo perpetua queste nicchie di mercato.
Ma al di là dei "vantaggi degli svantaggi", gli Hbcus ci fanno capire quant'è immane l'ipocrisia razziale che vige negli Usa, dove tutti danno per risolto il problema del razzismo (come in India danno per risolto il problema delle caste), mentre invece la mutua ostilità e diffidenza tra le razze continua ad avvelenare sorda la vita di questo paese. "La Clark Atlanta è un'università privata, quindi è lecito privilegiare gli studenti afroamericani, anche se noi abbiamo 200 studenti che non sono neri, alcuni sono bianchi, altri sono arabi", dice Joel Harrel (invece allo Spelman c'è una sola ragazza che non si dichiara nera, mi dice Arlen Wesley Clark e solo il 2% non precisa a quale razza appartiene). "Ma, insiste Harrel, vi sono atenei pubblici e segregati. L'University of Georgia è pubblica, ma è assai ostile agli studenti neri: mentre in Georgia il 28% della popolazione è nero, nell'University of Georgia solo il 6% degli studenti è nero. E siamo nel 2004".
Quando a pomeriggio inoltrato esco dal campus di Spelman e traverso quello della Clark Atlanta, lo spettacolo di questa gioventù bella, aitante, speranzosa, mi trasmette un sentimento duplice, contraddittorio. Da un lato una fiducia, ma dall'altro un dolore, per quello che non vedi: la Cau è un'università mista, eppure non vedi molti studenti maschi. "Sono solo il 25%: il resto sono ragazze. E questa percentuale è più o meno la stessa negli atenei di tutti gli Usa. Ma questo tocca il problema del maschio nero", dice Harrel. "Il giovane maschio nero è troppo aggressivo, dobbiamo insegnargli a ridurre la sua aggressività, che si dimostra autolesionista", sostiene Boone, e attribuisce questa "aggressività" a ragioni storico-culturali. Ma forse dipende dal grande internamento carcerario che colpisce gli adolescenti neri e che fa sì che siano più quelli che frequentano la prigione di quelli che entrano nelle aule scolastiche. I ragazzi neri li vedi fuori dal campus, alla guida di macchine scoperte che scorrono lente a tampinare le studentesse, con il rap a tutto volume che esce dagli altoparlanti.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …