Michele Serra: Wrestling, burattini di carne per la sceneggiata made in Usa

07 Giugno 2004
Il biondo afferra il microfono. Attende che il bestiale frastuono prodotto dalla folla si diradi per qualche secondo. Fissa negli occhi quelli delle prime file. Poi lancia il suo cordiale saluto: "Io vengo dagli Stati Uniti d'America. Italiani, baciatemi il culo". La folla impazzisce di rabbia. Ulula, ondeggia, grida "fuck you", mostra allo yankee tracotante il pollice verso oppure le mani aperte a cerchio nel gesto della minaccia sodomita. Lui si compiace assai dell'impopolarità, si accarezza gongolante gli enormi bicipiti e aggiunge due o tre insulti inudibili, sommersi dal boato dell'ostilità popolare.
Tra le commemorazioni del D-Day udite in questi giorni, non è la più politicamente corretta. Ma è sicuramente la più divertente. Suggella il vero e ineguagliabile primato degli americani nel mondo, il senso profondo della loro invincibile seduttività: lo show. Lo spettacolo. La sublimazione magari rozza, magari didascalica, ma lampante delle passioni umane.
Il tipo che invitava gli italiani a baciargli il culo si chiama Bradshaw, ed è uno dei pupi in carne e ossa (molta carne, molte ossa) del wrestling. Dove per pupi intendo dire esattamente i pupi, i burattini combattenti dell'antico teatrino di piazza, la chanson de geste tradotta per il popolo. E per wrestling (dall'inglese to wrestle, lottare) si intende quella pazzesca pantomima di botte, calci in faccia, prese mortifere che molti hanno visto o intravisto in tv (Italia 1, Sky), e che l'altra sera è andata in scena a Milano, al Palaforum di Assago, per 11mila ragazzini in assoluto visibilio.
Bradshaw è uno dei pupi cattivi. Rappresenta un bianco facoltoso e razzista, del sottogenere texano. Entra sovente in scena su una limousine bianca, con un cappello da cow-boy naturalmente bianco, e catalizza l'odio del pubblico attraverso l'evidente iniquità del suo predominio fisico (è altissimo, enorme, mascelluto) e di censo (è straricco). Questa iniquità è esaltata dal suo antagonista principale, idolo incontrastato degli immigrati ispanici, vero eroe tra gli eroi del wrestling. Si chiama Eddy Guerrero, è alto la metà di Bradshaw, ha una meravigliosa faccia da cameriere triste e il copione prevede che riesca quasi sempre a sconfiggere, anche con trucchi ignobili, il suo nemico. Quando l'arbitro lo incorona vincitore, vengono giù i palasport, a Los Angeles come a Milano, per via della vecchia storia che tutti tifano sempre per Davide, nessuno per Golia. E tra il ricco e il povero, si gode molto di più quando a fracassarsi le ossa, crollando sul ring, è il ricco.
I ruoli, nella compagnia di giro del wrestling, sono rigorosamente assegnati. E gli atleti-attori sono bravissimi a rimanere esattamente dentro le righe di una sceneggiatura elementare, caricaturale, con pochi tratti inequivocabili, da sceneggiata napoletana, così che il pubblico non debba tentennare nemmeno due secondi per decidere se amare oppure odiare. Il combattimento, a ben vedere, non è il vero momento topico del wrestling - anche perché le mosse sono ripetitive, i tonfi dei corpaccioni e le mascelle digrignate alla lunga stufano. Il momento topico è l'ingresso del lottatore, il suo materializzarsi nel fondo dell'arena nel tripudio dei riflettori, il suo incedere lento e strafottente tra due ali di pubblico in subbuglio, il suo salire sul ring, afferrare il microfono e declinare in poche frasi le sue intenzioni, la sua etica pupazzesca, la sua rappresentanza di razza e di classe.
Conclusa questa fase, il combattimento è appena una pratica da sbrigare, appassionante soprattutto per la minoranza di palestrati e culturisti presenti, dettaglio "tecnico" non particolarmente influente rispetto al gioco vero, che è quello dell'auto-presentazione dei personaggi, della loro tanto attesa ostensione di fronte a un platea che già li ha pre-visti in ore e ore di televisione, e ora può finalmente vederli davvero, invocarne lo sguardo da pochi metri, magari perfino riuscire a toccarli, accalcandosi contro le transenne.
Esattamente come nei giochi dei bambini, dove ciò che conta davvero è la manipolazione iniziale dei giocattoli, la loro vestizione, la messa in posa, la coreografia di partenza: e poi, schierati per bene i pupazzi, i soldatini, i fantocci, la battaglia vera e propria, certe volte, neppure ha bisogno di avere luogo.
Anche il wrestling è una toy-story. Una fantastica esposizione di pupazzi viventi. Gli sceneggiatori devono avere ampiamente capito che il combattimento in sé, specie tra colossi spesso sopra il quintale e mezzo, ha una forza drammaturgica piuttosto limitata.
Per quanto cartoons umani, i lottatori sono pur sempre umani. È possibile (con un talento atletico già straordinario) far roteare un gigante sopra le proprie spalle e scatafondarlo giù dal ring, non è possibile mandarlo in orbita come farebbe Popeye, o ridurlo a una frittata come nei cartoni veri. Così, gli sforzi dei pupari si sono concentrati soprattutto nella confezione dei pupi, che rappresentano (cartoonescamente) un meta-mondo dai tratti grottescamente marcati, ma parecchio interessante, come dire, sociologicamente e antropologicamente parlando.
Detto dello yankee odioso, lo stronzissimo Bradshaw (uno, per dire, che ad invadere un paese arabo non ci penserebbe un secondo), c'è per esempio lo yankee simpatico, tale John Cena, idolo del pubblico insieme all'ispanico Guerrero. Cena si presenta in scena con i jeans tagliati al ginocchio e il cappellino da baseball, gli manca solo il bicchierone di pop-corn in mano (provvedere, per piacere). È un atleta pazzesco, un bronzo di Riace (ci sarà pure una Riace, Wisconsin), sorride alla folla, si muove e parla come un rapper, è il marine buono che lancia la cioccolata agli sciuscià. È alleato di Eddy Guerrero, e nella rissa finale picchia duramente Bradshaw in una specie di regolamento di conti finale tra Americhe.
Buono è anche Rico, il lottatore gay, altro campione delle minoranze insorgenti, che irride il machismo degli avversari sculettandogli davanti agli occhi e facendoli imbufalire. Poi li mena di brutto. E Nunzio, un italoamericano da Actor's Studio, sfigato, esile, nevratile. E il messicano Ray Misterio, un piccoletto che combatte in maschera, velocissimo e furbo, metà Speedy Gonzales metà Zorro.
Tra i cattivi, se il leader è Bradshaw, fanno un figurone due sordidi ciccioni anzianotti, che si proclamano parenti stretti di Guerrero ma incarnano l'ispanico bilioso e lestofante, quello che non vorresti mai uscisse con tua figlia. Fantastico il francese Duprèe, un fichetto vantone, ossigenato e votato alle pernacchie del pubblico, fatto a pezzi da John Cena. Difficile che Bush e Chirac abbiano parlato di lui, ed è un peccato, perché Duprée è la perfetta icona di tutti i pregiudizi popolari americani sugli europei decadenti e presuntuosi.
Infine il pubblico, un pubblico iperpopolare, ingenuo, rumorosissimo, entusiasmante. Mai visto fumare tanto durante uno spettacolo, al Palaforum c'erano dodicenni che pippavano una Marlboro dopo l'altra come nei cinema di terza visione di trent'anni fa, deridendo le invocazioni dell'altoparlante. Migliaia di cartelli fatti in casa, puro pennarello su cartoncino rigido da scuole medie, con invocazioni all'eroe prediletto, insulti al nemico, richieste di matrimonio ai pupazzi più aitanti.
Una partecipazione emotiva senza se e senza ma, il gioco della credulità, nel più falso degli sport (pugni finti, sangue finto, verdetti finti, tutto finto) è quasi commovente, il rituale coinvolgente, mi sono ritrovato ad esultare per la vittoria delle classi subalterne (Eddy Guerrero) in mezzo a una torma di adolescenti in piena trance agonistica.
Oh sì, la violenza verbale, i cori osceni (dominante il tema della penetrazione anale a scopo punitivo), e certi ceffi da palestra, anabolizzati e decerebrati. E adrenalina e sudore a fiotti, tonsille spremute fino all'ultimo urlo, cattivo gusto travolgente in certe t-shirt trucide, in certe invettive da curva ultras. Insomma, non esattamente un pubblico educato. E poi un pubblico iper-televisivo, che si sdilinquisce all'ingresso di Jerry Scotti e si emoziona anche per la passerella di un vicecomico di Zelig, inconoscibile al di fuori della dipendenza da palinsesto.
Infine, popolo, ma così allegro, così felice di giocare al gioco dei pupazzi viventi, da contagiare chiunque si trovi immerso in quel bagno di emozioni elementari. Con i buoni e i cattivi, a ben vedere, messi al posto giusto, i piccoli che finalmente pestano i grossi, gli sfigati che mettono in scacco i prepotenti, gli immigrati che conquistano il podio come nelle migliori leggende di quel paese leggendario che è l'America. Tanto che, alla fine, pur stremato da quattro ore di ceffoni e pedate in bocca, di smargiassate e di trucchi da avanspettacolo, ero in prima fila ad applaudire il chicano Eddy Guerrero che dedicava alla "mamacita" il suo fresco, glorioso e fasullissimo titolo di campione del mondo.
Lavorassi in quel circo, provvederei subito a coniare un nuovo pupazzo perfido, un arabo infido con la scimitarra di cartone, il turbante e il nasone. Che regolasse le sue questioni con l'imperialista Bradshaw, e ci facessero ridere, finalmente, invece di farci spaventare.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …