Giorgio Bocca: Il delitto Matteotti e i doveri della destra

10 Giugno 2004
Dieci giugno del 1924, l’onorevole Giacomo Matteotti percorre il Lungotevere Arnaldo da Brescia diretto a Montecitorio. Da un’automobile ferma scendono degli uomini armati che lo colpiscono, lo inseguono sulla scaletta che scende al fiume, lo trascinano alla macchina che parte verso il ponte Milvio. Al volante c’è lo squadrista Amerigo Dumini, gli altri sono Albino Volpi, Aldo Putato, Augusto Malacria e Giuseppe Viola.
Il cadavere di Matteotti viene trovato il 16 agosto nella macchia della Quartarella a una ventina di chilometri a nord di Roma. Erano passati due mesi dall’assassinio, il fascismo aveva già superato la crisi più grave dalla presa del potere, la stampa fascista era già passata dai silenzi imbarazzati alle minacce e Mussolini in un discorso ai minatori del Monte Amiata era stato esplicito: "Il giorno che uscissero dalla vociferazione molesta per andare alle cose concrete, quel giorno noi di costoro faremo lo strame per gli accampamenti delle camicie nere". Fino all’assunzione piena di responsabilità del gennaio del ‘25: "Dichiaro qui al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se il fascismo è stato una compagnia a delinquere io sono il capo di questa compagnia a delinquere". Il giorno dopo Mussolini incontra il Re e gli chiede un decreto di scioglimento delle Camere, il Re avrebbe dovuto dirgli che le elezioni erano necessarie, ma non fatte da lui.
Il Re non lo disse, il fascismo aveva vinto. Nella primavera del ‘21 Mussolini era stato eletto deputato del "blocco nazionale" dopo una campagna elettorale largamente finanziata dagli industriali. Matteotti lo aveva denunciato ma non per questo fu ucciso. Fu ucciso perché era il vero capo dell’antifascismo, colui che in Parlamento il 7 novembre del ‘21 aveva pronunciato la più dura, circostanziata, coraggiosa requisitoria contro il fascismo e i suoi protettori: i favori resi agli industriali prima e dopo la guerra con commesse, protezioni doganali, finanziamenti. Dava maledettamente fastidio a Mussolini e al costituito Partito nazionale fascista un oppositore di tipo diverso da quello del socialista retore e remissivo. Matteotti era uomo informato dell’economia nazionale, dei giochi proibiti dell’alleanza conservatrice. Ed era un uomo coraggioso che pronunciò il discorso che segnò la sua condanna a morte. Era il 30 maggio del ‘24. Denunciò le violenze che in ottomila comuni avevano negato la possibilità di parlare in pubblico alle minoranze: che il sessanta per cento dei candidati socialisti non aveva potuto circolare liberamente nelle loro circoscrizioni, che molti avevano dovuto cambiar residenza o emigrare, che nei comuni di campagna i fascisti occupavano le sezioni elettorali, che le elezioni non erano valide di fronte alla dichiarazione del governo di rimanere in carica qualunque fosse il loro esito.
In quella tempestosa seduta il fascista Giunta definì Matteotti il "rappresentante tipico degli anni del disfattismo, della corruzione e della violenza più brutale". Il Mussolini di allora non mandava gli antifascisti in "vacanza al mare delle isole" come venne detto dal capo della polizia fascista e ripreso da Berlusconi. Forse sarebbe il caso che i reggenti di un Paese fino a prova contraria democratico si ricordassero di uno che per la democrazia è morto. Sarebbe il caso, in particolare, che se ne ricordasse Gianfranco Fini: magari portando sul luogo del rapimento i fiori della memoria, della rottura con il passato e della riconoscenza.

Giorgio Bocca

Giorgio Bocca (Cuneo, 1920 - Milano, 2011) è stato tra i giornalisti italiani più noti e importanti. Ha ricevuto il premio Ilaria Alpi alla carriera nel 2008. Feltrinelli ha pubblicato …