Paolo Rumiz: Quell'insurrezione dimenticata

15 Luglio 2004
"Il primo agosto '44 ci rivoltammo contro i nazisti perché non volevamo essere liberati dai russi. Conoscevamo gli orrori dello stalinismo, l'Armata Rossa arrivava, bisognava fare in fretta, e Varsavia insorse. Avevamo vent'anni, non conoscevamo la paura. Non ci importava di morire, la nostra causa era troppo grande". Alina Karpowicz, 82 anni splendidi e due occhi pieni di luce, racconta. "A pensarci, fu inutile: un disastro per noi, per Varsavia, per i civili. E un vantaggio per Stalin. Ma fu, lo giuro, la cosa più bella della mia vita. Fu tutto stupendamente romantico, tragico e insensato". 250 mila morti in due mesi. Un massacro. Combattimenti casa per casa, feriti nelle fogne e nelle cantine, una città intera che trasloca sottoterra, un paesaggio di macerie come Dresda, Hiroshima, che si è tentato di riprodurre nel film Il pianista. Nessuna capitale ha avuto più coraggio di Varsavia e nessuna ha subito più bombardamenti. Ma se ne parla poco. A Est, Mosca ha taciuto per mezzo secolo. A Ovest, la letteratura sulla rivolta del ghetto del '43 ha oscurato il resto. Ma le ragioni di quest'amnesia stanno soprattutto anche nella cattiva coscienza delle potenze alleate che, per la seconda volta dopo il '39, avevano abbandonato Varsavia a se stessa e alla dominazione di Stalin. Varsavia, si leggeva fino a ieri, fu liberata dai sovietici il 17 gennaio del '45. Falso, tre volte falso. Primo: i nazisti se n'erano già andati e i russi non spararono un colpo per entrare. Secondo: Varsavia era già stata rasa al suolo dunque non c'era niente da liberare. Terzo: l'Armata Rossa avrebbe potuto liberarla cinque mesi prima, ma non lo fece. I sovietici, anziché aiutare i rivoltosi, aspettarono che i nazisti li massacrassero. Stalin non voleva patrioti tra i piedi, ma una nazione-zombie da dominare. Così bloccò l'avanzata a cinque chilometri dal centro, e impedì che gli angloamericani paracadutassero munizioni. Né Londra e Parigi insistettero perché quegli aiuti arrivassero. L'Occidente aveva altro da pensare. "Il 4 giugno era caduta Roma, il 6 giugno gli Alleati erano sbarcati in Normandia, della Polonia non importava a nessuno", racconta lo storico Federigo Argentieri. Ma soprattutto il governo provvisorio di Varsavia a Londra ignorava che Churchill e Roosevelt, alla conferenza di Teheran del dicembre '43, avevano regalato alla Russia la parte di Polonia occupata da Stalin dopo il suo scellerato accordo con Hitler. Erano stati proprio gli inglesi (dopo la prima guerra mondiale) a sancire segretamente quella divisione, che prese il nome dal loro ministro degli Esteri Curzon. Linea Curzon appunto. Stalin, poi, avrebbe sfruttato alla grande l'imbarazzo di Churchill sull'argomento, per accaparrarsi la Polonia intera. Comincia con i polacchi in esilio che avvertono gli Alleati delle purghe staliniane, degli stermini per fame, dei Gulag. Nel '43 in Bielorussia, a Katyn, i tedeschi hanno trovato un'immensa fossa comune piena di soldati polacchi massacrati dai russi, ma la storia viene liquidata come propaganda nazista. Il mostro, allora è solo Hitler, e come se non bastasse, Roosevelt è affascinato da Stalin. Pochi credono alle paure degli esuli fuggiti a Londra. Ma il governo provvisorio non può aspettare, spera per la Polonia un destino occidentale, dà l'ordine di attacco. "All'inizio fu tutto facile - racconta Alina - i tedeschi erano asserragliati in pochi capisaldi. Ma poi arrivarono i bombardieri. Un immenso cannone su rotaie fu piazzato alle porte della città. E fu l'inferno". Alina annota tutto, tiene un diario minuzioso, ci tiene più che ai suoi anelli. Si combatte nelle fogne, come racconterà Andrzej Wajda nel suo film Kanal (I dannati di Varsavia). Si beve wodka per farsi coraggio e andare all'assalto. Ci si nutre di cani, gatti, radici. I tedeschi arretrano. Ma, esattamente come spera Stalin, è lo sterminio di un'intellighenzia. Di grandi poeti come Krzysztof Kamil Baczynski e Tadeusz Gajcy, che i compagni cercano di non far combattere perché "troppo preziosi per la Polonia". Antoni Bieniaszewski ha 25 anni, gli affidano il compito di bloccare i mezzi pesanti sull'arteria-chiave, Jerozolimska. "Costruimmo una trincea sotto il fuoco dell'artiglieria pesante. Morimmo come mosche. Un'impresa pazzesca, ma a noi pareva normale. Per tutta la rivolta non passò di lì un solo carro armato". Oggi Antoni ha 85 anni, è un bell'uomo dalla schiena dritta e i grandi baffi bianchi. Sorride: "Ho scoperto solo ora, leggendo i libri di storia, quanto era importante la posizione che tenevo". All'inizio la gente sostiene i combattenti, poi si dispera, li maledice. I bambini non hanno latte, i vecchi assistenza. Miron Bialoszewski racconterà il calvario dei civili in un libro uscito nel 1971 dopo vent'anni di censura. "Un racconto minuzioso e mistico, concentrato sulla fisiologia della sopravvivenza, un testo che ha spalancato nuovi orizzonti al linguaggio", spiega il critico Jacek Kopcinski. Le catacombe, la paura dei crolli, la claustrofobia, il buio, la lettura del salmo 91, una voce che sussurra "Mi porterai sulle tue spalle affinché io non mi ferisca i piedi con le pietre". E quando, il 3 ottobre, arriva la capitolazione, su Varsavia scende un silenzio quasi metafisico. In quel silenzio, il canto di un vecchio rimasto solo, inebetito su una sedia della cucina. La liturgia delle ore, un antico canto contadino che diventa urlo, uno squarcio nell'anima. I tedeschi riconoscono il valore degli insorti, concedono l'onore delle armi. Poi cominciano a distruggere la città. Dinamite e lanciafiamme. L'ordine del Fuhrer è "Vernichten und ausrotten", annientare e sradicare. La colonna dei superstiti attraversa la Polonia verso i campi di prigionia, ma pochi solidarizzano. La Polonia profonda, contadina, gode della sconfitta dei "signori della grande città". Inizia la tragedia di un eroismo negato. Quando arrivano i sovietici, i rivoltosi sono additati alla pubblica vergogna, messi in galera. Ai loro figli viene chiusa l'università. Morto Stalin, la storiografia comunista edulcora la rivolta come l'errore di una generazione nobile subornata da portatori di interessi ignobili. Ma solo anni dopo la storia riaffiora, escono i primi libri sull'evento. Racconta Kopcinski: "Quei libri ci hanno dato la forza di resistere. Nessuno può immaginare l'immensa forza morale che c'era nella parola scritta di quella generazione sconfitta. Un amore romantico della libertà, oggi inconcepibile. Oggi si parla del romanticismo polacco come sinonimo di nazionalismo e antisemitismo. Fu il contrario: il messianismo del nostro vate Mickiewicz ebbe radici ebraiche. Marek Edelmann, l'ultimo capo della rivolta del ghetto si rifece proprio a Mickiewicz, all'idea della morte cercata eroicamente e non subita. L'idea che la Polonia dovesse sacrificarsi per l'Europa nacque in ambienti ebrei". Per anni, portare fiori in cimitero il primo agosto, è stato per i polacchi l'unico modo di dirsi anticomunisti. "Ora finalmente se ne parla nei discorsi ufficiali, si apre un museo sulla rivolta, i fiori del primo agosto sono diventati cerimonia, e questo sessantesimo anniversario è l'ultima occasione per sentire dal vivo le voce di quella grande generazione" spiega Jarek Mikolajewski del quotidiano Gazeta Wyborcza. Ma aggiunge: "Intanto il ricordo si è banalizzato, ha perso intimità. È diventato una cosa di piazza, calata dall'alto. Si erigono monumenti faraonici, ma quel cemento certifica anche la fine di un simbolo. La generazione dei ventenni non sa più nulla di quel grande evento".

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …