Gabriele Romagnoli: Le bugie del marine Hassoun

16 Luglio 2004
Guerra, bugie & videotape, ovvero lo strano caso del marine Wassef Hassoun, la versione araba del talibano Johnny. Forse è stato rapito vicino a Falluja il 20 giugno, forse era lui quello nel filmato trasmesso il 27 che ne minacciava la decapitazione (poi falsamente annunciata), forse è stato davvero rilasciato e ha misteriosamente attraversato i confini iracheno e siriano per riapparire a Beirut il 5 luglio. Forse. Ma non è questo che conta, ora che è sano e salvo. è più importante quel che la sua vicenda ha portato alla luce, le menzogne che ha smascherato e quel che di vero ci racconta. La prima notizia contiene la prima bugia. Le agenzie di tutto il mondo scrivono: "Rapito un marine americano di origini libanesi". La menzogna è "americano". Se lo fosse stato non avrebbe avuto bisogno di diventarlo. Invece, venerdì scorso, prima che lasciasse il suolo libanese, è stata organizzata una "cerimonia d'emergenza" che ha stabilito un nuovo record: due ore e quarantacinque minuti soltanto dalla domanda all'ottenimento della cittadinanza americana, con tanto di giuramento e testimoni. Senza quella frettolosa messinscena il marine Hassoun non avrebbe potuto decollare: non aveva il passaporto americano. L'avrebbe ricevuto fra tre anni e qualche mese. La guerra in Iraq era la sua scorciatoia. Che cosa ci faceva un ragazzo dal nome musulmano a Falluja con addosso la divisa degli occupanti? Questa è la domanda che tutti gli arabi si sono fatti alla notizia del suo sequestro, o quel che è stato. La risposta è: voleva comprarsi il sogno americano. Aveva, come molti, sottoscritto un "patto con il diavolo". Da quando le prospettive in Iraq sono cambiate e la permanenza si prevede di lungo periodo, c'è bisogno di forze fresche, uomini che abbiano poco da perdere e qualcosa da guadagnare. Il patto che Wassef e altri hanno firmato era: quattro anni in divisa, per lo più a Bagdad e dintorni e, al rientro, cittadinanza e passaporto. Nel discutibile film di Michael Moore Farheneit 9-11 si vedono alcuni senatori americani rigettare l'idea di arruolare il proprio figlio e mandarlo in Iraq. Al loro posto: un esercito di latinos in cerca di legalità e, perfino, qualche arabo. Se il rapimento era autentico, questo è il suo messaggio: chi accetta quel patto ne pagherà le conseguenze. La reazione alla scoperta di queste verità contiene la seconda bugia. La famiglia Hassoun è attualmente divisa tra il nord del Libano e lo Utah. In un comunicato emesso domenica gli Hassoun libanesi dicono che "Wassef ha fatto una scelta sbagliata, dettata da difficoltà economiche". Da giorni e notti i giornalisti bivaccano a Tripoli in attesa di notizie e verità. Hanno raccontato che il clan degli Hassoun conta migliaia di persone. Quando la telecamera va in giro nel quartiere e interroga un passante, nella maggior parte dei casi il suo nome è Hassoun. Quando inquadra il nome della strada scopre "Via Hassoun". Hassoun è il nome scritto sulle insegne della maggior parte dei negozi. Un Hassoun non avrebbe avuto difficoltà economiche. Tuttavia un lato della famiglia ha preferito emigrare negli Stati Uniti. Per due ragioni. La prima: in Libano c’era la guerra. E con un "effetto Samarcanda" la guerra è andata ad aspettare il giovane Hassoun nel deserto dell'Iraq. La seconda: semplicemente, una parte degli Hassoun preferiva vivere in America. Nelle immagini televisive trasmesse da West Jordan, Utah, si vedevano ulema mediatori percorrere un giardinetto ben curato, verso una casetta di legno da sobborghi. La spaccatura forzata tra i due rami della famiglia è divenuta ancora più evidente durante e dopo il sequestro. Nello stesso giorno in cui gli Hassoun libanesi, per mettere fine alle accuse di "collaborazionismo" lanciate dai vicini, leggevano alla stampa il comunicato in cui Wassef era "un parente che ha sbagliato", gli Hassoun americani, per legittimarsi come integrati, riaffermavano all'intervistatore del giornale di Salt Lake City il proprio nazionalismo e escludevano con vigore l'ipotesi che il giovane soldato di famiglia potesse aver disertato, disonorando la divisa. Particolarmente fiero e patriottico il fratello Mohammed, che poi, per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, si alzava e andava a pregare in moschea dove, parole sue, mancava da settimane, forse mesi. L'ultima bugia è che questa sia una storia a lieto fine. Non sappiamo come sia cominciata. Il marine Hassoun potrebbe essere scappato per amore di una ragazza di Damasco o disamore di una guerra non sua. Non sappiamo come sia proseguita, se sia stato davvero rapito da chi voleva intimare ai musulmani di non voltare gabbana o abbia girato un filmino con un parente e due amici. Non sappiamo come si sia conclusa: con un rilascio o una lunga passeggiata. Il portavoce del Pentagono, Larry Di Rita, ci ha fatto sapere che: "Quasi nulla di quel che è stato detto e scritto sul caso del marine Hassoun risponde a verità" e gli saremmo grati se ci fornisse una versione più accurata, ma ha preannunciato che "non ne parlerà mai più, ora che il soldato è in salvo". Lui sì. Ma prima che riapparisse a Beirut per la cerimonia del passaporto, a Tripoli un venditore ambulante di nome Mustafa Halbouni (il secondo clan più numeroso), accusò in strada Mohammed Hassoun, cugino del marine, chiamandolo "lacchè dell'America". Due colpi di pistola partirono. Il primo uccise Mustafa, che aveva scatenato l'eccessiva reazione. Il secondo, un passante di nome Salim Ahmad. Se c'è una morale in questa piccola storia che ne riflette una più grande è che quando si raccontano bugie, quando qualcuno provoca e qualcun altro reagisce con eccesso della propria forza, a rimetterci è qualche innocente.

Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960) Giornalista professionista, a lungo inviato per “La Stampa”, direttore di “GQ” e Raisport è ora editorialista a “la Repubblica”. Narratore e saggista, il suo ultimo libro è …