Marco D'Eramo: Kerry, la sfida dell'America molto perbene

04 Agosto 2004
Qui non succede niente, ma questo niente è al centro del mondo", ha detto un giornalista di Newseek centrando il problema della Convention democratica 2004 che si è conclusa venerdì alle 5 e mezzo del mattino ora italiana. Quando all'inizio di luglio John Kerry ha annunciato che il suo partner di cordata e candidato alla vicepresidenza sarebbe stato il senatore della North Carolina John Edwards, ha tolto alla Convention l'ultimo residuo elemento di suspence. Un altro elemento che avrebbe potuto suscitare l'interesse dei media era la possibile composizione di un eventuale gabinetto Kerry, ma è ancora in alto mare. La vera posta in gioco riguardava però lo zoccolo duro del partito: le donne (in particolare le femministe), i sindacati, i pubblici dipendenti, i neri, gli ispanici. Questi pilastri del partito democratico non erano affatto entusiasti di un candidato imposto dall'apparato contro un Howard Dean (governatore del Vermont) che li aveva galvanizzati, visto che il candidato imposto è un aristocratico della Nuova Inghilterra, noto perché liberal (pro aborto, pro gay, ambientalista), ma non perché progressista: Kerry era a favore del trattato di libero commercio nordamedricano, Nafta, era per un ridimensionamento del ruolo dello stato, favorevole ai tagli fiscali (tutte posizioni su cui per ragioni elettorali ha dovuto correggersi). Dopo quattro giorni di Convention, il segnale è confuso. John Edwards ha portato un afflato più sociale con il suo slogan sulle "due Americhe". La piattaforma ha dato ampio spazio alle preoccupazioni dell'America profonda: riforma sanitaria, diritto alla scuola, diritto alla pensione, diritto al lavoro. L'elettorato nero è stato lusingato con i molti interventi di afro-americani durante il prime time, l'orario in cui le tv trasmettono la Convention in diretta. Uno degli oratori più applauditi è stato l'afroamericano dell'Illinois, Barack Obama, della destra del partito. Ma tutto ciò non ha lenito le ferite che l'apparato ha inferto all'ala più radicale dei neri democratici, quelli che alla Camera animano il Progressive Caucus: la marginalizzazione di Jesse Jackson senior, il confinare in primo pomeriggio Jesse Jackson junior, il nascondere le donne più di sinistra del partito, da Maxine Water a Barbara Jackson.
Neanche gli ispanici non sono stati trattati proprio bene: solo due oratori nel prime time in tutti e quattro i giorni di Convention, nonostante il loro voto sia decisivo in molti dei 17 stati "in bilico" (swinging), a partire dalla Florida: d'altronde molti rimpiangono che la Convention non si sia svolta a Miami, visto che una convention a Boston non porta a un candidato del Massachusetts niente di più di quel che già aveva, mentre la Florida mette ancora i brividi ai democratici con il ricordo dei conteggi nel novembre 2000. Molte le oratrici donne, ma nulla di paragonabile al loro peso tra i delegati, di cui costituiscono esattamente la metà. Come in altri campi professionali, anche nel partito democratico vi sono molte donne nei gradini bassi della gerarchia, ma si diradano man mano che si sale. Questo spiega la passione delle donne democratiche per Hilary Rodham Clinton (che non è un campione di simpatia umana), come una che ha saputo farsi largo e, soprattutto, emanciparsi dal ruolo di First Lady, di mogliettina fedele del sogno americano, e mettersi in proprio diventando senatrice dello stato di New York. Neanche il sindacato non è stato trattato benissimo. Il suo presidente John Sweeney ha parlato sì nel giorno di Kerry, sì nella seduta principale (quella che cominciava alle 19 e finiva alle 23 ora di Boston), ma prima delle 20, cioè prima dei tg. E senza i sindacati il partito democratico non va da nessuna parte.
Più in generale, chiedevamo a questa Convention di farci capire se il vertice ha ricucito lo strappo con la base, a partire dalla guerra in Iraq. Non sembra. Non solo per l'ostentazione di militarismo: alla tribuna si sono succeduti i generali dall'ex comandante della Nato Wesley Clark all'ex capo di stato maggiore americano John Shalikashvili. Ma perché il cuore dei delegati batteva altrove e gli applausi più appassionati venivano tributati agli oratori più radicali (per quanto dovessero contenersi, viste le rigide direttive imposte dalla commissione di controllo): i Ted Kennedy, gli Howard Dean, i Dennis Kucinich, gli Al Sharpton ("No signor Bush, il voto degli afro-americani non è in vendita").
Eccoci al punto. La Convention è un rito politico sul viale del tramonto perché era strutturato su un altro sistema mediatico, quello delle grandi tv generaliste, e su una diversa articolazione politica. La Convention fallisce perché deve rivolgersi a troppe audiences nello stesso tempo. Deve parlare all'America intera, attraverso le sempre più rarefatte dirette tv; deve parlare ai media di tutto il mondo, presenti qui con 15.000 addetti: questa è la cifra fornita dagli organizzatori che a me sembra francamente gonfiata; ma anche se "solo" 10.000, eravamo pur sempre il doppio dei delegati: e c'è qualcosa che in va in un evento politico in cui gli interessati sono la metà di coloro che ne riferiscono. Poi deve parlare ai delegati e, attraverso di loro, ai propri militanti e attivisti tutti. Negli anni questa molteplicità di interlocutori è diventata sempre più difficile da esaudire in simultanea. Il Kerry che vuole convincere l'elettore indeciso lascia freddo il proprio militante, e viceversa; il Kerry che parla al mondo non interessa all'America profonda dei suburbi. Nel mondo televisivo la moda dei reality shows è stata definita come il trionfo degli spettacoli non scritti contro gli sceneggiati. Ecco, il problema del rito politico della Convention è di essere overscript, troppo sceneggiata in anticipo. Viene da sorridere: proprio mentre negli Usa questo rituale mostra gli acciacchi e si avvia a un lento ma sicuro declino, ecco che in Italia lo si vuole imitare (dove porta il meccanismo delle primarie se non a una Convention finale?). La stanchezza dei media tradizionali spiega l'altrimenti inspiegabile successo dei bloggers. Cioè di siti internet interattivi dove si scambiano notizie e commenti sulla Convention. Al settimo piano del Fleet Center c'era tutto un settore familiarmente chiamato Blogger Boulevard dove giovani indaffaratissimi picchiavano sui tasti dei computer (uno di loro lavorava su 4 portatili insieme). Per lo più i blogger sono informazione di secondo grado, basata su altra informazione, ma - come mi ha spiegato una di loro, Zoe Wan der Wolk, studentessa di statistica all'università di Harvard (parla un cinese fluente) - sono agili, permettono il botta e risposta, e soprattutto possono essere fondati senza capitali. Io ho contato almeno 86 blogs e 35 di loro erano accreditati alla Convention. Non solo, ma anche i grandi media si sono aperti i propri blogs. Qui tutti aprono un blog. Il blog è l'equivalente mediatico di quel che MoveOn è per la raccolta di fondi: la via informatica alla politica. Ma neanche i blogs possono fare miracoli, e non possono fare più che pestare l'acqua della non notizia nel mortaio dell'informazione. Perché il difetto sta nel manico, in questo caso nell'apparato di partito, nel suo vertice, nel presidente Terry Mcauliffe che ha imposto una disciplina militare a questa Convention. Noi deprecavamo lo stalinismo ma davvero tutto il rito qui a Boston aveva qualcosa di staliniano, la rigida uniformità dei testi, il martellamento costante dello stesso slogan ripetuto da centinaia di oratori ("Voto Kerry perché è un leader, perché è forte, perché è saggio"). Lo stesso stereotipato ottimismo da congresso Pcus, gli stessi onori tributati agli eroici militari, la stessa mielosissima retorica patriottarda: non si contano le volte in cui è stata gridata sull'orlo del pianto l'espressione "Oh America la bella!" (America the beautiful).
Consoliamoci con i due momenti migliori del discorso di Kerry. Quello in cui ha difeso la complessità delle proprie posizioni, e ha attaccato il semplicismo di Bush: "Dire che ci sono armi di distruzioni di mass in Iraq non le fa esistere. Dire che possiamo combattere una guerra a buon mercato non la rende tale. E certo, proclamare `missione compiuta' non la compie affatto". E quando ha attaccato l'amministrazione: "Io sarò un comandante in capo che non ci porterà mai fuori strada in una guerra. Avrò un vicepresidente che non terrà incontri segreti con gli inquinatori per riscrivere le leggi ambientali. Avrò un ministro della difesa che ascolterà il parere dei nostri comandanti militari. E nominerò un ministro della giustizia che onorerà la Costituzione degli Stati uniti".

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …