Gabriele Romagnoli: Olimpiadi - I trenta secondi dell'arciere miope

24 Agosto 2004
Per la serie "miracoli italiani": un arciere miope centra la medaglia d'oro. L' album dei campioni bisestili, atleti spaiati che collezioniamo ogni quattro anni, si arricchisce di una nuova fotografia: un ragazzo di ventun anni robusto e rosato, che porta gli occhiali in gara perché gli manca una diottria, ma se li toglie dopo, solo per abbassare gli occhi pieni di timidezza più che di gioia. Impacciato tutta la vita, sicuro di sé nei trenta secondi che gliela potevano cambiare.Marco Galiazzo da Padova, appassionato di automobiline, è una faccia che dimenticheremo domani e non riconosceremo mai tra la folla di un sabato pomeriggio al caffè Pedrocchi perché in quel momento sarà ad allenarsi in campagna, divertendosi di più con le sue frecce. Non ha detto e non dirà frasi memorabili dopo una vittoria. Eppure di tutte le favole che ci hanno raccontato sui prodigi del Nord-est questa è una delle poche in cui riusciamo a credere. Galiazzo è venuto qui, ha gareggiato in uno sport dove non contano gli arbitri, il risultato è visibilmente incontestabile, le regole semplici, chiare e spietate come fossimo ancora in cortile (tiri tu, tiro io, chi ci prende di più vince). Ha battuto uno dopo l' altro tutti i rivali compreso il suo "padre spirituale" Di Buò che tirava alle Olimpiadi di Los Angeles quando lui era appena nato. In finale ha incontrato il giapponese Yamamoto che in quei Giochi vinceva una medaglia e ha il doppio dei suoi anni. All' ultimo tiro, quando la freccia dovrebbe pesare 300 chili e non 300 grammi, ha colpito un centro perfetto: lì, nel cuore dell' improbabile, a sovvertire il teorema per cui «i bravi ragazzi finiscono secondi». Quando imparano l' arte della pazienza, li benedice il dono della serenità e, va da sé, un adolescente venuto dall' Australia gli elimina i coreani, i bravi ragazzi arrivano in fondo da soli, si accorgono di aver fatto il vuoto alle spalle, depongono le armi, sorridono, dicono educatamente «grazie» e tornano a casa. Semplice così, a guardarla dalla coda. L' inizio, invece, non è così facile e niente di quel che seguirà è scontato. Tanto vale confessarlo: sono andato all' antico stadio per fare un pezzo di colore. Come tutti gli italiani, esclusi i 15 mila che lo praticano, del tiro con l' arco non sapevo e capivo nulla fino a due giorni fa. Poi ho voluto vedere la gara femminile e questa è la conclusione che ne avevo tratto: si tratta di una sala bingo dove chi fa tombola è coreano. Viste dalle tribune, le frecce fanno lo stesso percorso e ti devi fidare della voce dell' annunciatore che grida i numeri (Dieci! Otto!) e li fa apparire su un tabellone luminoso. Che non siano sorteggiati ma esito di un gesto atletico è un patto di fiducia tra lui e gli spettatori inesperti. I pochi che capiscono, tipo quelli della federazione italiana, sono invece incredibili: la freccia è ancora in aria e già prevedono esattamente dove cadrà. Comunque, tra le donne c' era stata una finale tutta coreana e tra gli uomini si prevedeva lo stesso. Alla vigilia avevano battuto ogni record di precisione e puntavano al cappotto: tre medaglie su tre. Gli italiani hanno preso un allenatore coreano (benchè si faccia chiamare Pietro e abbia la moglie cantante d' opera) per colmare la distanza e assicuravano di aver fatto progressi, ma non sembrava. Il più quotato, Frangilli, era stato eliminato dal giapponese Yamamoto, un bel tipo con la faccia di Takeshi Kitano, che tiene nel canocchiale la foto del figlio, ogni tanto fa finta di guardare il bersaglio, ma si carica pensando al suo ragazzo, che potrebbe avere l' età di chi l' ha battuto. Negli ottavi c' era stato lo scontro in famiglia e l' esperto Di Buò era stato sconfitto da Galiazzo. «Un miracolo!» aveva profeticamente commentato. Il "miracolato" va ai quarti con i suoi occhiali da vista e da gara e un avversario americano sostenuto dal non folto pubblico. Per i primi sei di dodici tiri gli sta dietro, poi sorpassa e vince di un punto. è nei primi quattro e il miglior risultato nazionale è un bronzo. Può eguagliarlo, ma ha progetti più grandi. Ha cominciato a otto anni, quando gli altri giocavano a pallone. L' hanno preso in giro dacché ha cominciato a vincere, "per invidia", dirà. Non ha bisogno di uno psicologo, ha già capito molto da solo. Non è mai entrato in una discoteca, passa le domeniche sui campi di gara, è un ragazzo con un progetto ed è qui per realizzarlo. Tra lui e la finale c' è di mezzo un inglese spaccone che nelle pause si sbraccia a salutare la moglie. Infilza anche quello. Mister Godfrey non sente l' avviso di chiamata e non risponde quando, nell' ultima serie, Galiazzo infila tre centri perfetti (10-10-10 e perfino il tabellone brilla d' entusiasmo, ma lui no). Nell' altra parte del percorso sono caduti uno dopo l' altro i tre coreani che sembravano imbattibili. Al duello finale si presenta Yamamoto, con la sua faccia da bandito pop e il suo cuore da papà. In semifinale ha battuto il baby australiano allo spareggio con una freccia da 10 quando ogni altro risultato non sarebbe bastato. Sembra il tipo capace di pescare sempre dal mazzo la carta più alta senza neppure guardare; l' uomo che non deve cedere, mai. E comincia dimostrandolo: fa due centri perfetti nei primi tre tiri. Poi Galiazzo mette il turbo in quell' automobilina che ha in testa. Dev' essere che a un certo punto si convince che tra lui e il bersaglio c' è una pista, basta metterci sopra la freccia e andrà al traguardo. Passa in testa a metà gara. Dirà: "Lì ho capito che avrei vinto". Non si sbaglia e non sbaglia più niente. Vince con quella freccia pesante che gli vola via come avesse fretta per lui. Alza le braccia, nel maxischermo che lo inquadra scocca un sorriso, ma è un attimo. Non è tutt' oro quel che riluce, qualche volta è un riflesso sulle lenti.

Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960) Giornalista professionista, a lungo inviato per “La Stampa”, direttore di “GQ” e Raisport è ora editorialista a “la Repubblica”. Narratore e saggista, il suo ultimo libro è …