"L'ultimo viaggio di Dio", James Morrow

16 Settembre 2004
Una bella storia ha bisogno di una bella idea, naturalmente.
Gli scrittori passano la vita a cercare di farsene venire una, se non buona, almeno passabile. Molte vite professionali, da questo punto di vista, trascorrono nella frustrazione più desolante.
Un buon scrittore, in genere, riesce a mettere insieme un’unica, vera, grande idea in tutta la sua vita. Le eccezioni ci sono e tutti noi lettori ce le contiamo sulle dita di una sola mano.
Come perviene agli organi recettori dello scrittore una buona idea? Generalmente non per folgorazione divina o possessione satanica; ci sono, si, alcuni esempi al riguardo, ma non di storia recente. Nemmeno, va detto, attraverso particolari pratiche di concentrazione mentale, esercizi di psicodinamica o sedute di meditazione, coadiuvate o meno dall’assunzione di sostanze chimiche. Gli esperimenti al riguardo hanno sempre dato risultati tristemente deludenti. Credo piuttosto che un buon scrittore -c’é abbondante documentazione iconografica al riguardo- deve avere grosso naso o grandi occhi o orecchio capace, e meglio ancora tutte queste tre cose assieme; dunque darsi innanzitutto da fare con quelle, che sono gratis e a portata di mano. Dopodiché speri di avere coraggio, abbastanza coraggio. Perché non c’è furbizia e intelligenza e applicazione che bastino da sole.
Non c’é una sola grande storia che non sia frutto di un gesto, una scelta, un’idea di grande coraggio. Il nostro scrittore questo lo sa e interroga incessantemente Dio e se stesso in merito alla spinosa domanda: avrò fegato sufficiente a lasciarmi inghiottire dal baratro senza scampo di una grande idea?
Come é stato argutamente osservato tempo addietro, il coraggio chi non ce l’ha non se lo può far venire, e così notiamo con tragica frequenza e immutato raccapriccio come un bel po’ di idee in sé e per sé niente male finiscano per sfiorire e quindi morire tra le mani di narratori senza il coraggio -e il cuore- bastanti a farle vivere e prosperare nelle pagine delle loro storie.
L’atto dell’acquistare ed aprire e quindi leggere un romanzo è a sua volta un gesto di coraggio. Una scelta ardita, compiuta a detrimento di altre e ben più vistose -e magari anche meno costose- modalità di intrattenimento e ricreazione Il lettore ama essere ricambiato per questo suo gesto; ritiene, con encomiabile modestia, che raccontare sia più impegnativo di ascoltare -o leggere- ma non per questo è disposto ad assecondare un atteggiamento avaro e sleale. Noi lettori ardiamo dal desiderio di leggere storie coraggiose, ovvero ardite costruzioni, generose prestazioni d’opera; impazziamo di piacere ogniqualvolta ci imbattiamo in un grande gesto narrativo. Siamo ben disposti a passar sopra difetti non secondari, come una non perfetta coerenza, una consecutio un po’ bislacca, una pagina non proprio pettinata a puntino, chiudiamo gli occhi anche davanti a qualche sgrammaticatura, se in cambio possiamo avere tra le mani una vera storia.
Dico tutte queste cose perché altrimenti non saprei spiegare a me stesso la ragione del mio sconsiderato entusiasmo per l’ultimo romanzo che ho letto, né capirei la scarsa, accidiosa memoria per molti altri.
L’ultimo viaggio di Dio non sarà il meglio romanzo contemporaneo, ma è -davvero- una storia. Quel James Morrow un’idea ce l’ha avuta sul serio e ha trovato il coraggio per lasciarcisi andare fino al fondo. Dunque, vediamo.
Dio è morto, e fin qui niente di nuovo.
Sono tremila anni che se ne parla, solo per restare al nostro dio; noi ebrei e cristiani abbiamo addirittura una fiorente teologia della morte di Dio. Ma, per l’appunto, si tratta di una questione tutta concettuale, tutta teorica, tutta metaforica.
James Morrow però mette giù la questione in maniera assai diversa. Perché -vedete- Dio è morto davvero, e il suo cadavere è alla deriva nell’Atlantico al largo delle coste del Gabon. Un cadavere a immagine e somiglianza di un maschio adulto di razza bianca lungo tre chilometri e pesante sette milioni di tonnellate. Basta con i discorsi, Dio è morto sul serio; se c’è un problema adesso è trovare il modo di levare di torno quell’immensa salma prima che marcisca.
Beh, che ve ne pare dell’incipit? Un po’ più potente di un vaso di Nescafé, non dite. Perché -pensateci ancora un poco: Dio è morto sul serio. Ci pensino con calma gli atei più ancora dei credenti: Dio è morto; è là, riverso supino sull’Atlantico, ed è tanto grande che non si può fare finta di non averlo visto.
Le quattrocento pagine che vengono dopo raccontano la grande battaglia per la contesa delle sue spoglie. E, potete crederci, non c’è da annoiarsi.
L’idea era buona, il coraggio di Morrow è stato grande, la manodopera a regola d’arte, la scrittura, e dunque la traduzione, eccellente. E il lettore ne è ripagato dal profondo, interiorissimo piacere che sola può dare la vertigine di sentirsi accolto dentro una vicenda assieme talmente immanente e straordinaria da essere ragionevole oltre ogni verosomiglianza. Perché è questo ciò che il nostro ineludibile bisogno di ricreazione incessantemente ci chiede, no? Parlo proprio del bisogno di dare aria alla capacità di pensiero, all’inventiva fantastica, alle risorse di sentimentalità, ricreare tutto questo ben di dio di nostra proprietà, dopo una intensa giornata di duro e sgomento tirare avanti.
Certo questa storia è roba di genere, diciamo fanta-teologia, come già fu per Philiph Dick, storiacce che fino a poco tempo fa andavano nelle edicole -e forse era meglio così perché le si leggeva in di più e senza tanti problemi. Ma pensateci ancora per un momento: Dio è morto e qui comincia l’avventura.
E vadano a farsi fottere gli scrittori tignosi e e perbenino.

Maurizio Maggiani

Maurizio Maggiani (Castelnuovo Magra, La Spezia, 1951) con Feltrinelli ha pubblicato: Vi ho già tutti sognato una volta (1990), Felice alla guerra (1992), màuri màuri (1989, e poi 1996), Il …