Michele Serra: Carlo Petrini. L'uomo che resiste al fast food

07 Ottobre 2004
Carlo Petrini ha saputo di essere stato nominato da ‟Time” "eroe europeo dell'anno" mentre era sulla rotta tra New Delhi (India) e Bra (Cuneo), da quel cosmopolita di provincia che è sempre stato. Se la ride, naturalmente, ma essendo l'esatto contrario di uno snob incassa e ringrazia. "Mi sono fatto spiegare in che cavolo di senso io sarei un eroe, e quello che mi hanno detto mi sta benone: uno che lavora duro per realizzare un progetto quasi impossibile. Ci volevano gli americani, accidenti". In Italia, effettivamente, Petrini ha una fama abbastanza stereotipata e in fondo limitata, quella del ghiottone di sinistra, figura lievemente decadente. "Ma per carità, va benissimo anche quello. Non rinnego, anzi rivendico: il diritto al piacere non è ideologico, è fisiologico, ed è schifosamente classista pensare che solo le classi abbienti debbano godere. Solo che io, parallelamente a questo, e insieme a questo...". Solo che lui, partendo dalla cultura del cibo, ha messo in piedi, dall'84 a oggi, non solo un'associazione internazionale come Slow Food, in prima linea nella difesa delle colture in via d'estinzione e delle biodiversità; non solo la prima università al mondo di Scienze dell'alimentazione, a Pollenzo (di fianco a Bra, naturalmente); ma anche una rete mondiale di contadini che non ha eguali, probabilmente, nella storia. Verranno in cinquemila, a fine ottobre, dall'Africa, dalle montagne del Tibet, dalla Lapponia, da 132 paesi, ospiti nelle case di mezzo Piemonte.

L'evento si chiama ‟Terra Madre”, chiedo a Petrini se non intenda fondare la Quinta Internazionale...
Ha ha ha! Ma io non sono mica un politico. Pessimo mediatore, non sarei capace. Sono un organizzatore, ecco, questo sì. Mi piace mettere in contatto le persone, dare vita a flussi di conoscenze, collegare esperienze che poi si contaminano tra loro, germinano, danno frutti. Terra Madre nasce dai Premi Slow Food: venivano contadini da ogni parte del mondo, parlavano lingue diverse ma dopo mezz'ora, magari a gesti, cominciavano a comunicare, mettevano a confronto le loro culture materiali, erano felici. Erano un centinaio, i loro nomi e le loro storie, assolutamente straordinarie, erano segnalati da una giuria di ottocento giornalisti sparsi nei vari continenti. Al Premio venivano anche loro, gli ottocento giornalisti, tutti grandi amici, per carità. Però mi sono chiesto se invece di invitare ottocento giornalisti e cento contadini non fosse il caso di invertire le proporzioni.

Anche perché ospitare cinquemila contadini costerà più o meno come ospitare ottocento giornalisti... Macché! (ride fortissimo) Costa molto di meno! Anche perché i contadini si accontentano, li abbiamo sistemati tutti in case private, comunità religiose, da altri contadini. Bravissimi i compagni della Coldiretti, che da soli ci hanno procurato mille posti letto. E magnifico il guazzabuglio che si sta creando, con i birrai americani che fraternizzano con i nostri vigneron, polacchi in giro per la Langa, e ancora non sono arrivati quelli del Ladakh...

Prego?
Vicino al Tibet, coltivano miglio e allevano gli yak a 3500 metri. Io sono arciconvinto che mettere insieme queste realtà sarà una grande opera di globalizzazione virtuosa. Le multinazionali hanno potenza politica e potere economico, io punto, da sempre, sull'autostima degli uomini che è da risvegliare, sull'orgoglio di esistere. Quelli del Ladakh, quando torneranno a casa, avranno molte cose da raccontare, e ne avranno raccontate altrettante. Sapranno di essere meno soli, di far parte di una rete preziosa, insostituibile, di valori materiali. Perché l'altra globalizzazione, quella dei fast-food e dell'omologazione, ha il torto e insieme la debolezza di essere immateriale. Loro vendono "stili di vita", noi facciamo le cose con le mani.

Ma tutta questa energia? Questa devozione allegra, ma anche incontrastata, al tuo lavoro...
Oh, faccio parte di una generazione fortunata. Non avendo conosciuto la fame e la guerra, le privazioni che per i nostri nonni erano pratica quotidiana, abbiamo avuto tutto il tempo di pensare e di sognare. Abbiamo sognato anche molte cazzate, per carità. Ma lo abbiamo fatto in tutta onestà, io dico, e senza vendere l'anima al diavolo.

Mica tutti.
Beh, io provo a parlare per me e per la mia gente. Con me lavorano in duecento, tra università, casa editrice e associazione. Età media ventisette anni, ragazzi meravigliosi. Sono stato malato, fuori combattimento, hanno mandato avanti la baracca in una maniera che se ci penso mi commuovo. Ci si crede, ecco. Poi, certo, la provincia aiuta, eccome. All'inizio mi dicevano: ma tu devi andare a Milano o a Roma. Ma a Milano o Roma, scusate, siamo troppo distanti dalla materia prima, che è la terra. Questa é una zona ad alta, anzi altissima vocazione agricola e gastronomica, è da qui che si deve continuare a ragionare. E quando vedo studenti di mezzo mondo che arrivano a Pollenzo per fare l'università, capisco che ce l'abbiamo fatta.

A farcela, Carlo Petrini detto Carlìn, è abituato da sempre. Negli anni Settanta, tanto per esordire in società, mise in piedi a Bra il più grande festival mondiale di musica etnica, "che allora si chiamava ancora musica popolare", riesumando un'antica tradizione pasquale langarola e aprendola, tanto per gradire, a iracheni e messicani, catalani e bretoni. Dove arriva, Carlìn, contagia luoghi e persone con il suo culto del convivio, della conversazione amicale, del "rivediamoci presto e facciamo ancora meglio". "Tra i posti che mi hanno formato non dimenticare, per piacere, di citare il Club Tenco di Amilcare Rambaldi. È soprattutto lì che ho imparato il piacere e insieme l'importanza della curiosità culturale, dello scambio umano, della contaminazione fraterna e contagiosa tra le persone del mondo. Ricchezza, ricchezza inesauribile, che ti porti dietro per tutta la vita".

Petrini é un uomo sociale, secondo qualcuno quasi un monaco laico, che ha speso la vita a collegare le vite altrui. Rinunciando a qualcosa?
Mah, forse avrei potuto farmi una famiglia, ma la mia vita è così piena, e gratificante, che non ho neanche il tempo per eventuali rimpianti. Ho inseguito una vocazione che era, al tempo stesso, un puro piacere. Io sono figlio di un'ortolana cattolica e di un ferroviere comunista, la terra e il viaggio evidentemente ce li ho nel sangue. E poi la mia levatrice si chiamava Gola, madama Gola, e dunque, in fondo, non ho fatto altro che dare retta al destino.

A ‟Terra Madre” ci saranno, insieme a nomadi, pescatori, agricoltori, allevatori di yak, anche le autorità...
Ma per forza. Non abbiamo nessun cappello da mettere in testa a nessuno, niente capi e capetti, organigrammi. Però ci vengono a sentire un po' tutti, ministri e capoccioni, e a noi fa piacere. Ci sarà anche Carlo d'Inghilterra, mica robetta, anzi proprio un bel sacramento (a Bra significa: uno importantissimo, ndr). Ma non lo scrivere così, per carità, se poi ci legge l'ambasciatore inglese...

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …

La cattura

La cattura

di Salvo Palazzolo, Maurizio de Lucia