Domenico Starnone: Un cielo in comune

27 Ottobre 2004
È bene tenersi un unico cielo sulla testa o assecondarne la frammentazione in nome delle differenze, delle libertà, di una più compiuta democrazia e via dicendo? Hero, lo spettacolarissimo e cinesissimo film di Zang Yimou che non è solo un grande piacere per gli occhi, ma è anche una favola politica allarmatissima sui tempi in cui viviamo, pone questa domanda. È inutile qui riassumerne la trama complicata, anche se il film è pieno di sfumature e meriterebbe un'analisi puntuale. Diciamo solo che il guerriero votato a uccidere il Principe, figura di un'unità statuale sempre precaria, alla fine lo elimina solo metaforicamente con un audace finto assassinio che è insieme un monito e una minaccia, ne accetta di fatto il monopolio dell'uso della forza legittima, si lascia giustiziare e, grazie alla lungimiranza della sua decisione, da bandito sterminatore diventa eroe con funerali di stato. Come a dire: meglio la Jugoslavia che la ex Jugoslavia; meglio l'Urss che la Russia; meglio la Cina comunista che le bande mafiose e i signori della guerra; meglio, eventualmente, un'aministrazione imperiale del pianeta che la zuffa permanente. Come a dire: dietro ogni rottura dello stato centrale, totalitario e non, cova il caos, il regresso verso la guerra tra potentati, etnie, campanili, bande; attenti quindi alla qualità di ogni rivendicazione: ce ne sono alcune che possono farci cadere il cielo in testa.

Giuliano Amato giorni fa su ‟Repubblica”, ragionando di federalismo, si preoccupava anche lui di possibili cieli a pezzi. Scriveva che se la maggioranza avesse riflettuto, invece di votare con disinvolta leggerezza, si sarebbe accorta che l'eventuale repubblica federale italiana può diventare di fatto la cornice giuridica dentro cui i secessionisti padani faranno più agevolmente e legittimamente la loro secessione, proprio come le repubbliche autonome di Jugoslavia. Il cielo allora potrebbe spezzarsi anche sulla nostra testa, più o meno disastrosamente come temuto nella favola cinese. Non risulta che qualcuno si sia veramente preoccupato del monito del film cinese, di quello di Amato. Eppure l'apologo di Zang Yimou e le ipotesi del dottor Sottile vanno nella stessa direzione. Interpretano le ansie d'oggi, dicono in modo diverso che c'è un limite oltre il quale gli stati, uniti o unici, a forza di trasformarsi da accentrati in decentrati vuoi per terremoti politici vuoi per adattamenti dall'interno, si dissolvono con tutte le incognite del caso. Ed è sicuramente vero, molti terribili disastri lo dimostrano.
D'altra parte senza questo movimento interno è la democrazia stessa, col suo corredo di libertà e di eguaglianze, che si svuota ulteriormente, invece di salire di grado e di sostanza. Rinunciare a ogni opposizione radicale per paura di distruggere il cielo unico, come fa il guerriero cinese, significa mutare la battaglia politica in figura retorica e accettare a seconda dei casi, per amore di un sempre ambiguo bene comune, ora il partito unico, ora una formazione autoritario-televisiva, ora stati unitari e stati composti che si allentano o si attrezzano per svolte autoritarie sulla base delle necessità del momento, ora il governo imperiale del pianeta globalizzato. Il cammino della democrazia reale, insomma, è condannato dallo spettacolo cupo d'oggi a impantanarsi più o meno definitivamente?
I leghisti sono quello che sono e l'ultima cosa che possono farci venire in mente sono i poderosi, travagliati guerrieri cinesi. Che il sindaco di Treviso rifletta anche solo per un attimo su cieli unici e cieli divisi si esclude: non è gente pensosa, quella della Lega, e l'ultima cosa che sta a cuore ai rudi militanti del carroccio è la democrazia reale. Tanto più che è fin troppo chiaro che hanno barattato il federalismo con la trasformazione del premier in lìder maximo, segno che o intendono battersela davvero in fretta con una secessione, come sospetta Amato, o si immaginano un loro staterello futuro con un governo ancora più autoritario di quello che le riforme della destra ventilano per lo stato centrale. Tuttavia sono comunque, volenti o nolenti, parte di un problema politico di lunga data: il nesso, cioè, tra forma statuale e grado della democrazia. Vale la pena ragionarci.
A meno che non siamo tutti convinti che il guerriero di Hero faccia bene a suicidarsi per amore del cielo unico; che un'unica superpotenza che governi il pianeta sia una necessità, che basti un po' di ritualità elettorale a forza di bombe per dire che in Afghanistan e in Iraq è nata la democrazia; che l'Europa federata è un toccasana; o che, per stare ai meschini casi nostri, va benissimo l'attuale stato regionale.

Domenico Starnone

Domenico Starnone (Napoli, 1943) ha fatto l’insegnante e il redattore delle pagine culturali del ‟Manifesto”. Oltre a opere narrative, ha scritto molti libri sulla vita scolastica (da cui sono stati …