Marco D'Eramo: Halloween, i fantasmi che infestano le urne

02 Novembre 2004
Halloween è la festa dei fantasmi: ecco il commento più pertinente che ho ascoltato sul tempista messaggio di Osama bin Laden. Perché possono mancare solo due giorni al voto, ma questa città universitaria del Wisconsin è tutta presa dalla frenesia della festa in cui i vivi sono più vicini ai morti e le barriere dell'aldilà sono più penetrabili. I giovani vanno in giro mascherati nei costumi più improbabili. Sul letto rifatto del mio motel trovo un foglio che elenca: Ordinanza del comune di Madison, minimo pagamento richiesto: Condotta turbolenta: 412 dollari (331 euro); Procurare o fornire alcool a persone sotto l'età: 280 euro; Danni alle proprietà (incluse quelle dell'albergo). 230 euro; Chiasso irragionevole; 130 euro; Vendere alcool senza licenza: 530 euro; Aprire contenitori di alcool per strada: 232 euro; Persona sotto l'età che consuma alcool: 130 euro se fuori da luoghi con licenza, 240 euro in luoghi con licenza; Possesso di contenitori di vetro nell'area di Stae street (la via che porta dal Campidoglio al campus universitario): 233 euro. Perché negli ultimi due anni Halloween è stato teatro di violenti disordini in questa aggraziata cittadina incuneata nell'istmo di quattro laghi: il Wisconsin vanta 8.000 laghi per complessivi 4.700 kmq, visto dall'alto è perciò un acquitrino. Visto dal suolo è un dolce boscoso falsopiano, paradiso di caccia e di pesca, in cui a gennaio la temperatura media oscilla tra i -7 e i -12.
Forse è l'avvicinarsi dell'inverno che rende tanto febbrile questa festività: mi rendo conto all'improvviso che da sempre le elezioni presidenziali si tengono così a ridosso dell'equivalente locale del carnevale, quasi a sottolineare il disprezzo nei confronti della politica: una carnevalata. Eppure nelle conversazioni ebbre di taverne e pub questo Halloween per la prima volta sento parlare di politica, argomento di solito tabù nei luoghi pubblici. Caroline e il suo ragazzo Aaron una coppia piccola piccola, lui guadagna 14.000 dollari l'anno, lei 11.000 e solo l'affitto ne costa 7.200. A lei quando era giovane hanno fatto l'elettrochoc e adesso è cuoca; lui lavora nelle assicurazioni, ma vorrebbe diventare scrittore. Sono contrari alla guerra in Iraq. Sarebbero i perfetti elettori democratici, ti dici; e invece non andranno a votare perché comunque la politica è sporca.
E di Caroline e Aaron in Wisconsin ce ne sono tantissimi. Chiedo a John Nichols di spiegarmi come mai questo stato storicamente progressista, che ha un governatore democratico, i sindaci delle due maggiori città democratici, i due senatori dello stato democratici, è adesso uno degli stati più in bilico dell'elezione presidenziale. Il senatore in corsa quest'anno è Russ Feingold, l'unico membro del senato ad aver votato contro il Patriot Act nel 2001 e contro la guerra in Iraq nel 2000: come mai il democratico Feingold è in testa di 20 punti nei sondaggi, mentre John Kerry è alla pari con George W. Bush? "Perfino Dukakis ottenne il 55 % in Wisconsin nell'88 quando perse clamorosamente a livello nazionale" mi fa notare John Nichols, 44 anni, wisconsiniano di settima generazione ("i miei avi arrivarono qui nel 1823"), collaboratore di ‟The Nation”, autore di libri (ne sta pubblicando uno su Dick Cheney) e giornalista al ‟Capital Times”, l'unico quotidiano progressista ("progressista, non liberal", tiene a precisare) di tutti gli Stati uniti: "Noi siamo stati contro la guerra fin dall'inizio, contro il Patriot Act, noi siamo per limitare il potere delle corporations: sono loro il vero veleno che intossica la vita politica degli Stati uniti. Noi vendiamo 25.000 copie ma siamo floridi economicamente: questo giornale fu creato nel 1917 per sostenere Bob La Follette (fondatore del movimento progressista del Wisconsin) che veniva politicamente linciato perché era contro l'ingresso in guerra. Il fondatore del giornale era un uomo molto ricco che costruì una struttura finanziaria che faceva capo a una fondazione. Il suo successore era un genio della finanza che fece aumentare la dotazione della fondazione a 100 milioni di dollari. Così oggi il nostro giornale, oltre a pagare tutti gli stipendi, spese, pensioni, copertura sanitaria, elargisce ogni anno 4 milioni di dollari in beneficenza". Beati loro, mi dico pensando ai continui travagli economici del ‟manifesto”.
"Qui sono tutti cacciatori: i pensionati ricchi vanno a finire la vita in Florida, quelli poveri vengono qui: è pieno di poliziotti e pompieri di Chicago in pensione che cacciano e pescano. Qui la gente caccia per gli animali, non per sport. E Kerry viene a qui a sparare per far vedere che non ha niente contro le armi, ma si mette una tenuta da caccia che sembra uscita da una rivista di moda. Un sondaggio qui aveva posto una domanda interessante: "Secondo voi quale dei due candidati si fa il pieno di benzina da solo alla pompa?" e Bush ha vinto 70 contro 10. Noi siamo profondamente Midwesteners e Kerry non è visto come 'uno di noi'. Non dico che perderà, anzi per me può farcela, ma certo è dura".
E poi, controcorrente rispetto a tutto quello che ho sentito in questo mese, John aggiunge: "Comunque un'eventuale vittoria di Bush non sarà la fine del mondo. Intanto questa volta i democratici non resteranno paralizzati come nel 2000, quando hanno regalato a Bush tutto, dai tagli fiscali alla legge ‟No Child Left Behind” ("Nessun bambino lasciato indietro", perfetto esempio di orwelliana neolingua - ndr ), al Patriot Act, alla guerra in Iraq. La stessa sinistra non rimarrà, come fu nel 2000, ipnotizzata dalla sconfitta, ma reagirà. Dopo un'iniziale depressione, la straordinaria mobilitazione di quest'anno si ricoagulerà. E poi i secondi mandati non portano mai bene: Richard Nixon si dovette dimettere, Ronald Reagan era mezzo rimbambito, Bill Clinton fu linciato. No, Bush non avrà vita facile", mi dice sorseggiando il suo bicchierone nel caffè Ancora , vicino al Campidoglio. "La vedo molto più dura per Kerry perché in politica interna eredita un disastro e perché in politica estera dovrà gestire la guerra in Iraq. Non vorrei essere nei suoi panni".
Non è d'accordo con lui Matt Rotschild ("vorrei avere un dollaro per ogni volta che mi hanno chiesto se sono parente dei banchieri: adesso sarei ricco come loro"), 46 anni, da 21 anni giornalista e da 10 direttore del mensile ‟The Progressive”: "Quello tra Kerry e la sinistra è stato un matrimonio di convenienza, e appena Kerry vince la sinistra chiederà il divorzio, e sarà un divorzio disastroso, acrimonioso, perché sono in disaccordo sul punto essenziale: la guerra in Iraq. Se invece vince Bush, gli psichiatri avranno da fare perché ci sarà un mucchio di gente disperata".
Di questo coinvolgimento emotivo avevo avuto sentore passeggiando con John Nichols che mi indicava il nuovo palazzo delle esposizioni di fronte al lago, finito solo l'anno scorso su un progetto di 70 anni fa di Frank Lloyd Wright. Per strada tre signore portano cartelloni arrotolati a favore di John Kerry e John Edwards: sono attiviste del sindacato dei servizi Seiu. Quando parliamo della possibilità che Bush vinca, sbottano: "Questa volta scendiamo in piazza, altro che". "Vedi?" commenta John Nichols. E loro: "Altrimenti veniamo a casa sua a Roma come rifugiate politiche". "Guarda che non scherzano, rischi di ritrovartele".
Prima di entrare al ‟Progressive”, Matt Rotschild aveva lavorato per due anni (dai 22 ai 24 anni) nel giornale di Ralph Nader ‟Multinational Monitor”. Gli chiedo cosa pensa della candidatura di Nader: "È un peccato, si fa male da solo, otterrà lo 0,5% e si screditerà, è stato abbandonato dal partito verde e anche dall'intellighentsia di sinistra. Noam Chomsky e Howard Zinn lo avevano appoggiato nel 2000, ora hanno preso le distanze. È triste vederlo avviarsi al tramonto sminuendosi, perché comunque è stato importantissimo e ha insegnato ad almeno a un paio di generazioni di progressisti chi davvero comanda in America".
E questa è un'altra novità delle elezioni: per usare un'espressione desueta, una "rinnovata coscienza di classe". È stato così totale e incondizionato l'appoggio all'amministrazione Bush delle corporations (e dei media che le queste controllano) che l'animosità contro Bush si traduce per la prima volta da molti anni in ostilità verso il controllo che le corporations esercitano sulla società.
È una novità che mi fa osservare Joel Rogers nel suo studio nell'edificio di Scienze Sociali in cima alla collina dal campus, da cui si domina il paesaggio lacustre: professore di Scienze politiche, collaboratore di ‟The Nation”, autore di libri, Joel è fondatore e direttore del centro studi Cows (Center on Wisconsin Strategy, un gioco di parole perché cow vuol dire mucca e questo stato è considerato la "latteria d'America"). "Per decenni la sinistra era rimasta a margine della politica politica, aveva lavorato per issues, temi, i diritti civili, l'emancipazione delle donne, l'ambiente, la globalizzazione, e così via, ma era rimasta discosta rispetto alla questione del potere politico qui negli Stati uniti. Così la generazione tra i 40 e i 50 anni non ha nessuna esperienza di campagne politiche. Questa è la prima volta che la sinistra si mobilita direttamente in una campagna. E la dice lunga il fatto che la mobilitazione maggiore e più efficace sia venuta da fuori il partito democratico. Per la prima volta il movimento progressista in America è diventato cosciente di quanto è serio il progetto politico portato avanti dalla macchina da guerra repubblicana, un progetto multigenerazionale. Per la sinistra americana si pone il problema di contrastare questo progetto e di crearsi nuove strutture. Per esempio noi non abbiamo leaders, abbiamo star: Jesse Jackson negli anni `80, poi Ralph Nader, ora Michael Moore, ma non abbiamo leaders. Dobbiamo dotarci ci una rete di comunicazione, di un meccanismo di reclutamento, di un messaggio semplice, positivo, sintetico, di una massa di messaggeri (pensi che negli Usa ci sono 500.000 seggi elettorali); dobbiamo reinventare modelli, cioè esperienze di vittorie passate che siano un esempio, dotarci di denaro non filantropico o tipo beneficenza, ma denaro strutturato e produttivo, infine dobbiamo rivitalizzare la categoria di centro di servizi. Insomma ci si pone il problema del partito".

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …