Umberto Galimberti: Il corpo e il dolore

28 Febbraio 2005
Il papa di nuovo al "Gemelli" dopo quindici giorni dalle dimissioni da quell’ospedale. La condizione del suo corpo, che tanto commuove i fedeli, fa sorgere anche la domanda se in quelle condizioni il Papa può ancora svolgere la sua funzione di Vicario di Cristo, o non siano preferibili le sue dimissioni per evidenti difficoltà di dirigere una Chiesa che annovera nel mondo milioni di fedeli. Il rifiuto del Papa a dimettersi è naturalmente accolto. Ma a me pare più per obbedienza che per fede. E allora la domanda è: quanta conoscenza delle Sacre Scritture e quanta fede circola ancora tra coloro che pongono il problema delle dimissioni del Papa a partire dallo stato di sofferenza del suo corpo? Io che non ho fede penso che, a differenza di noi tutti, il Papa non consideri più il suo corpo come qualcosa di "suo", ma come qualcosa di radicalmente e profondamente iscritto nella sua fede, di cui non più lui ma Iddio può disporre. Per cui la domanda delle sue dimissioni non a lui dovrebbe essere rivolta ma, se fosse possibile, a Dio. Ma che dice la sua fede a proposito del corpo e del dolore? Dice che il corpo è "il tempio dello Spirito Santo" (1 Cor 6,19), e che "l’uomo deve glorificare Dio nel proprio corpo". Si dirà che il corpo del Papa è giunto a un livello di sofferenza tale il cui protrarsi potrebbe far pensare che, per il Cristianesimo, Dio si glorifica non tanto nel corpo, quanto nel dolore. Ebbene sì. Perché se è vero che nell’Antico Testamento la sofferenza era vista spesso come una maledizione, nel Nuovo Testamento diventa beatitudine, o come dice Paolo: "Il sovrabbondare della gloria in tutte le tribolazioni". "Servo dei servi", come vuole una delle tante definizioni della funzione pontificia, come fa il Papa a sottrarsi all’annuncio della sua fede che dice: "La sofferenza è una prova altissima che Dio riserva ai servi di cui è fiero" (Gen 22). Il servo conosce la sofferenza nelle sue forme più terribili e scandalose. Come dice Isaia essa ha compiuto su di lui tutte le sue devastazioni e lo ha sfigurato a tal punto da non provocare neppure più la compassione. E questo non per un accidente o per un momento tragico, come quando il Papa è stato colpito dalla pallottola a suo dire "deviata dalla Madonna", e poi fatta incastonare nella corona della statua di Fatima, ma come connotato della sua esistenza che lo configura, come vuole l’espressione di Isaia: "Uomo dei dolori". Se proseguiamo nella lettura di Isaia proprio qui sta: "Il successo del disegno di Dio" (53,10). Innocente "egli intercede per i peccatori", offrendo a Dio non soltanto la supplica del cuore, ma "la sua propria vita in espiazione", "lasciandosi confondere con i peccatori, per prendere su di sé le loro colpe". Portando su di sé tutta la sofferenza e i peccati del mondo, nell’obbedienza, egli ottiene per tutti "pace e guarigione". Se così parlano i testi rivelati, volete che il Papa, dimettendosi, trasgredisca il disegno di Dio e nasconda "il braccio di Jahve" che trasforma lo scandalo supremo in meraviglia inaudita? Se a ciò si aggiunge che il Papa è il Vicario di Cristo, non possiamo dimenticare che Cristo è l’uomo dei dolori, in cui si incarna la misteriosa figura del servo sofferente, sensibile a ogni dolore umano. La sofferenza, dice Giovanni, è beatitudine perché prepara ad accogliere il Regno, permette di "rivelare le opere di Dio" (9,3), "la gloria di Dio e quella del Figlio di Dio". Gesù "si turba" al pensiero della passione, il suo dolore diventa angoscia mortale, concentra tutta la sofferenza umana possibile, dal tradimento fino all’abbandono di Dio. Questo momento coincide con il dono espiatorio della sua vita, per il quale è stato inviato nel mondo secondo gli eterni disegni del Padre (Atti 3,18). Gesù si sottomette obbedientemente e amorosamente. La sua passione scandalizza Pietro e i suoi discepoli, come la sofferenza irrimediabile del Papa scandalizza quanti temono per le sorti della Chiesa. Ma "se il Maestro ha conosciuto sofferenze e tribolazioni, i discepoli devono seguire la stessa via" (Gv 15,20). Se, come dice Paolo: "Il cristiano non è più lui che vive, ma Cristo che vive in lui", le sofferenze del cristiano sono "le sofferenze di Cristo in lui". E come Cristo "pur essendo Figlio, imparò, per le cose patite, l’obbedienza", così bisogna che noi "affrontiamo con costanza la prova che ci è proposta, fissando i nostri occhi sul capo della nostra fede che tollerò una croce", perché Cristo si è fatto solidale con coloro che soffrono, e lascia ai suoi la stessa legge (1 Cor 12,26), affinché "la vita di Gesù sia anch’essa manifestata nel nostro corpo". è allora evidente che chiedere al Papa di dimettersi o interrogarsi sulle sue possibili divisioni equivale a chiedere al Papa di sconfessare la sua fede, di rinunciare alla testimonianza, quella più dolorosa, perché infligge la sofferenza nel corpo stesso, il quale, lo ripetiamo, per un Papa che ha fede, non è più "suo", e quindi non può più disporne, perché appartiene alla sua fede.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …