Marco D'Eramo: Inglesi al voto, floridi e scontenti

04 Maggio 2005
Due dei tre più influenti organi del capitalismo mondiale, e cioè il quotidiano ‟Financial Times” e il magazine ‟The Economist” hanno invitato gli inglesi a votare domani per Tony Blair (l'altro, lo statunitense Wall Street Journal s' interessa assai poco a queste elezioni del Regno unito). La copertina del settimanale accampa un'orribile foto del premier britannico - sguardo falso e sorriso da squalo tutto (brutti) denti di fuori - sotto il titolo "Non c'è alternativa (ahimé)"; mentre il Financial Times (FT) ribadisce il concetto intitolando il suo editoriale "Perché non è ancora ora di cambiare". L'appoggio, pur condizionato, da parte delle "voci dei padroni" esprime meglio di qualunque altro segno la vera differenza tra il New Labour inventato da Tony Blair nel 1994, e il Labour considerato fino ad allora la "cinghia di trasmissione politica" dei sindacati (Trade Unions).
La differenza sta quindi in questo, che il mondo della grande finanza non percepisce più i Tories come amici e il Labour come avversario: a ragione l'FT nota che, quanto a politica economica, "la differenza tra il Labour di Tony Blair e i Conservatori di Michael Howard è minore di quella che c'era nelle ultime elezioni Usa tra Repubblicani e Democratici". Va aggiunto, a onor del vero, che la differenza di politiche economiche tra Labour e Tories è ancora molto maggiore di quella che si profila tra centrodestra e centrosinistra nel voto del 2006 in Italia.
Tutto sarebbe perciò molto chiaro, e descrivibile con la sempiterna immagine dei traditori di classe che svendono il patrimonio di un secolo di lotte operaie, se non fosse per un particolare, e cioè che l'economia inglese è oggi in forma nettamente migliore dell'economia italiana che per un quinquennio ha avuto un governo di sinistra, di quella francese che ha conosciuto un ventennio socialista e un quinquennio chirachiano, e di quella tedesca che non riesce ancora a digerire il boccone troppo indigesto della Germania est inghiottito nel 1990, nonostante 8 anni di coalizione verde-rossa.
Se l'immagine convenzionale non abbisognasse almeno di una rivisitazione critica, 18 anni di thatcherismo e otto di blairismo dovrebbero aver lasciato il Regno unito allo stremo e le città britanniche dovrebbero tutte somigliare a quell'apocalittico disastro che è Detroit (Michigan).

Quadro meno netto
Il quadro è invece molto meno netto. Intanto per cominciare, la peggiore notizia per noi italiani sta tutta in queste due cifre: nel 1990 il nostro Prodotto interno lordo (Pil) pro capite era di 17.420 dollari Usa, mentre quello inglese era 16.220 (il 7,5 % in meno). Cioè il singolo italiano produceva nettamente più ricchezza del singolo inglese. Dodici anni dopo, nel 2002, il rapporto si era invertito: il Pil inglese pro capite era di 25.566 dollari, il 25,3% in più di quello italiano (20.398). Cioè nei dodici anni si era creata tra i due paesi una voragine pari a un terzo delle loro economie. E negli ultimi due anni la situazione non è migliorata: per esempio l'anno scorso l'economia italiana è cresciuta dello 0,8%, mentre quella inglese è cresciuta del 2,8%, aggiungendo un gap del 2% in un solo anno.
La performance inglese risalta soprattutto negli ultimi anni, dopo lo scoppio della bolla azionaria statunitense (fine 2000) e gli attentati dell'11 settembre 2001, quando le altre economie mondiali (le europee in particolare) sono state colpite dalla recessione.
Lo stesso schema si ripresenta per i posti di lavoro. La disoccupazione è da anni circa la metà di quella italiana (oggi è il 4,7% nel Regno unito contro l'8,0% in Italia). Questi dati - assai soddisfacenti per un qualunque governo - costituiscono un mistero ancora più inesplicabile se inquadrati in una situazione monetaria a prima vista sfavorevole, di estrema sopravvalutazione della sterlina rispetto sia al dollaro, sia alle singole valute europee prima, e all'euro oggi. Nonostante l'euro valga circa 1,3 dollari Usa, esso vale ancora solo 0,67 sterline inglesi. Eppure tutti i governi addossano all'euro gonfiato la stagnazione economica dell'Unione europea (Ue). Come mai la sterlina sopravvalutata non ha lo stesso effetto?
L'indizio più serio per una risposta sta nella rivoluzione che ha conosciuto la struttura del mercato del lavoro inglese da quando Margaret Thatcher salì al potere a oggi. Nel 1978 il mercato del lavoro del Regno unito era composto da 14,8 milioni di posti nel terziario contro 15,6 milioni nel primario e secondario (6,9 milioni nell'industria manifatturiera). Nel 2003 invece i servizi comprendevano 20,9 milioni di posti di lavoro, mentre il primario e secondario insieme ne contavano solo 7,1 (di cui 3,4 nell'industria manifatturiera). Nel 1978 i servizi rappresentavano il 48% dei posti di lavoro, nel 2003 erano diventati il 75%. Cioè, da un punto di vista lavorativo, la Gran Bretagna si è terziarizzata per i tre quarti.
Il risultato a prima vista paradossale è che noi stiamo tremando all'idea di perdere la Fiat, mentre gli inglesi le loro Fiat le hanno già perdute (la crisi della MG Rover si sta concludendo in questi giorni) con traumi abbastanza assorbiti, e anche il portavoce della Transport & General Workers Union, Andrew Murray, che risponde al telefono alle mie domande, vede i problemi della casa automobilistica di Birmingham nei termini più della francese Alsthom che della nostra Fiat.
Con la crescita dei nuovi giganti asiatici, Cina e India, la chiusura di molti settori industriali diventa una prospettiva concreta per gran parte dei paesi europei, soprattutto quelli, come il nostro, a debole tecnologia avanzata.

Il dilemma dei polli
La terziarizzazione ha avuto la sua controparte sociale nel declino numerico della classe operaia, e ancor più nella sua perdita di forza organizzativa. È l'uovo e la gallina: è stata la sconfitta che la Thatcher inflisse alle Trade Unions ad aver accelerato la terziarizzazione? o la crisi dei sindacati fu il riflesso dei giganteschi processi planetari di dislocazione del lavoro che già allora si avvertivano (negli anni `70 fu la volta dell'acciaio e del carbone, non per nulla la più grave sconfitta la subirono i minatori)? Lo stesso dilemma da polli si riproduce nella relazione simmetrica: fu la vittoria del capitale sul lavoro a riportare Londra al centro del mercato finanziario mondiale negli anni `80 e `90, o fu la finanziarizzazione dell'economia già in corso a determinare la sconfitta del lavoro contro il capitale? Dal punto di vista finanziario il risultato fu che la City ritornò a essere il secondo polo mondiale dopo - e in sinergia con - New York, posizione che a quel tempo Tokyo sembrava averle sottratto. Per i meccanismi descritti da Saskia Sassen, l'economia delocalizzata ha bisogno di centri di potere e decisionali assai localizzati, ha bisogno cioè di città globali attorno a cui cresce un tessuto di lavori, professionalità, dalle meglio remunerate (gli studi legali internazionali) alle più umili (il personale che di notte pulisce le grandi sedi multinazionali).
Si spiega forse così un dato poco conosciuto in Italia: contrariamente alle idee ricevute, durante gli anni `70 il flusso migratorio totale da e per la Gran Bretagna era stato negativo (tra il 1973 e il 1982 erano emigrati 430.000 inglesi in più di quanti stranieri erano immigrati); tra il 1983 e il 1992 il flusso era stato quasi bilanciato (2,4 milioni di ingressi contro 2,2 milioni di uscite) e solo tra il 1993 e il 2002 il flusso è stato positivo per più di un milione (3,9 milioni di entrate contro 2,8 di uscite). La crescita dell'immigrazione è un altro segno della vitalità di questo settore terziario.
È chiaro in ogni caso che solo il clima politico e sociale business friendly (come viene chiamato qui con un eufemismo) mantiene Londra al centro dell'economia globale: da qui deriva l'assoluta necessità di una sterlina forte in grado di attirare i capitali stranieri. E, in quanto uno dei due centri di comando del capitalismo mondiale, l'interesse vitale della Gran Bretagna è di rimanere in simbiosi strettissima con gli Stati uniti: nei rapporti tra City e Wall Street risiede la ragione più vera e più profonda dell'adesione entusiasta di Tony Blair alla guerra in Iraq.

Università di classe
Una volta chiariti tutti questi elementi, resta comunque il nodo: era possibile una politica più equa? Certo che sì: con l'aumento delle iscrizioni, l'università sta tornando a essere un privilegio di classe. E in ogni caso le disuguaglianze sono cresciute durante il primo mandato Blair, anche se diminuite nel secondo (restano complessivamente più alte che sotto Major): nel 1979 il 10% più agiato riceveva il 20 % del reddito nazionale; al momento in cui Blair prese il potere riceveva il 26%, nel 2002-3 aveva il 28%. Però i "blairiti" fanno notare che le disuguaglianze sono cresciute in un quadro dinamico: cioè i redditi dei più sfavoriti sono comunque aumentati (+ 27%), anche se meno dei redditi più favoriti (+ 34%). A sentire i sostenitori di Blair come David Goodhart direttore del mensile Prospect, il blairismo avrebbe addirittura costruito un "nuovo stato sociale" e fanno notare come la spesa sanitaria e dell'educazione, dopo gli otto anni di blairismo, rappresenta più del 30% del bilancio dello stato, contro il 25% nel 1996 e addirittura il 22% nel 1979, ultimo anno di potere del "Vecchio Labour". La spesa pubblica è di nuovo aumentata non solo in assoluto ma come percentuale del Pil (41%, sempre meno però che il 44-48% sotto il thatcherismo). Da Robin Blackburn ( che ha scritto il libro più importante sul problema delle pensioni) a John Kampfner del New Statesman, tutti mi dicono che sì, sono stati aperti un sacco di ospedali nuovi, costruite scuole elementari nuove, assunti medici, infermieri, insegnanti.
Sembra cioè che l'adesione del blairismo al libero mercato sia più una forma di giuramento di fedeltà - indispensabile al vassallo per ottenere il proprio feudo dal monarca - che una vera e propria politica economica. È un pagare pegno e dare una garanzia ideologica ai "mercati". Lo si vede nella goffaggine della politica ferroviaria, dove il più grande disastro economico della storia inglese, quello della privatizzazione delle ferrovie sotto Major, è stato affrontato con maldestri espedienti nominali per nascondere il fatto che Blair procedeva una vera e propria rinazionalizzazione (ma questi trucchetti non vanno senza costi reali perché impediscono i piani d'investimento a lungo termine).
Costi analoghi se non superiori saranno pagati dall'Inghilterra per la gran trovata delle joint ventures pubblico-privato nella sanità e nella scuola, escogitate per trovare fondi nell'immediato, pagando gli interessi a termine, e giustificate con l'idea che il privato è più efficiente del pubblico. La verità è che, a differenza dello stato, i privati devono estrarre profitti e quindi i loro servizi sono intrinsecamente più cari di quelli pubblici (come si è visto nel caso delle prigioni Usa), o comunque più costosi in termini di qualità (si sacrifica la manutenzione dei binari per tagliare i costi e aumentare i profitti e così crescono gli incidenti ferroviari).
L'altro problema serio è il sotto investimento nelle infrastrutture, senza cui alla lunga il sistema economico crolla. Per non sforare troppo il bilancio, il blairismo ha rinviato questi investimenti, ma un giorno o l'altro la Gran Bretagna si troverà di fronte al problema. Lo stesso discorso vale per la dipendenza al 100% dalla tecnologia avanzata statunitense: ne è una dimostrazione il fatto che l'élite intellettuale e professionale indiana si forma ormai quasi tutta negli Usa e non più nell'ex potenza coloniale. Può darsi perciò che gli anni di crescita economica del blairismo siano più effimeri di quanto sembra oggi. In ogni caso la Gran Bretagna costruita da Thatcher e da Blair è ormai legata mani e piedi agli Usa, ne costituisce quasi un cinquantunesimo stato: e dovrà seguire il destino di questa nuova madrepatria adottiva anche quando le vacche dimagriranno.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …