Amos Oz. Una vita una gente

17 Settembre 2003
Si ride. E si piange. Poi, di nuovo, a tratti, sorrisi e sentimenti forti. E qualche volta, anche, ci stanchiamo un po´. Ma si rimane spesso estasiati mentre Amos Oz apre col suo linguaggio sublime le infinite black box - come recitava il titolo di un precedente romanzo - che per la prima volta raccontano la sua vita: davanti alla scatola nera, Oz manda avanti il nastro, ascolta, ricorda, riascolta, riannoda un discorso spezzato, cambia registro, va avanti, alza il volume su un brusio dell´ultima fila, pensa a cosa voglia dire quel certo suono sulla scena del disastro o della meraviglia, canta una canzone liberatoria, si accende una sigaretta, fa ripartire il nastro. Ci ripensa. Ricomincia da capo.
Niente a che fare con una confessione spontanea, né con un logorroico fiume in piena: Una storia di amore e di tenebra è quanto di più sapientemente costruito si possa leggere. E se il filo rosso è il drammatico suicidio della madre di Oz nel ´52, quando Amos ha 13 anni, che viene annunciato fin dall´inizio e si conclude solo nell´ultima pagina, ("di mia madre non ho parlato quasi mai, per tutta la mia vita fino a ora, che scrivo queste pagine. Né con mio padre né con mia moglie né con i miei figli né con nessun altro. Dopo la morte di mio padre, nemmeno di lui ho quasi mai parlato"), la "storia" si dipana tra continui salti avanti e indietro, tra passato remoto e passato prossimo e presente, riflessioni, aneddoti, rivelazioni sulle sue tecniche di scrittore, di narratore (come ha utilizzato quel personaggio nel romanzo Michael mio, o quell´altro in Conoscere una donna, o in Fima), di lettore onnivoro, squarci sul fidanzamento con parole e libri da lui stesso consapevolmente contratto in tenerissima età. E poi, c´è il sionismo, e Israele, Gerusalemme. Una miscela di circostanze enormi - la madre ucraina Fania Mussman, il padre Yehudah Arieh Klausner in parte lituano, gli amici, le emozioni, i lutti, gli innamoramenti - e infinitesimali, su cui Oz usa la sua "visione" e quella speciale capacità di mettere a fuoco l´invisibile: come il modo di camminare che si poteva captare negli anni Quaranta (e forse ancor´oggi) a Tel Aviv, "piena di ebrei abbronzati che sapevano nuotare. A Gerusalemme chi mai sapeva nuotare? S´era mai sentito di ebrei nuotatori?", a Tel Aviv dove "si camminava in modo diverso: si flottava, saltellando, un po´ come Neil Armstrong sulla luna"; mentre a Gerusalemme la gente si muoveva "come quando si arriva in ritardo a un concerto: prima si metteva un po´ avanti una scarpa, e si tastava prudentemente il terreno. Poi, con la gamba ormai posata per terra, non si aveva troppo fretta di muoverla: dopo duemila anni calpestiamo nuovamente il suolo di Gerusalemme, e non siamo disposti ad abbandonarlo così precipitosamente".
Cuore del racconto, nonostante la varietà di toni con quel trillare continuo di una capinera che insiste con le prime cinque note di Per Elisa: Ti da da da da, è la tenebra. E il dolore. Come altro potrebbe essere per un uomo scrivere del suicidio della propria madre?
Quella morte ha molto a che fare con la sofferenza di Israele. A Oz preme svelare il travaglio che diede la luce alla patria degli ebrei e al rapporto di questa con l´Europa: è suo padre a dargliene la chiave quando gli racconta che da bambino vedeva scritto su ogni muro d´Europa "giudei, andatevene a casa, in Palestina" e che, passati 50 anni, tornato per un viaggio in Europa, i muri gli urlavano addosso "ebrei, uscite dalla Palestina". Questo senso dell´offesa di fronte al rifiuto dell´Europa è presente lungo tutta l´autobiografia. E´ un´accusa. Il concerto delle voci presenti, tante, innumerevoli, vecchi intellettuali nazionalisti, kibbutznik vigorosi, nonni galanti, intellettuali e accomodatori di bambole, zie amorose, maestre poetesse, ognuno con la propria circostanziata memoria o con le proprie novelle degne di Singer, raccontano una sola storia, che "il tempo in Europa era scaduto" e "c´era una terra cui presto saremmo dovuti andare", perché l´antisemitismo aveva schiacciato e umiliato gli ebrei per poi prepararsi a ucciderli, tutti.
Eppure questi ebrei l´amavano l´Europa. I genitori di Amos Oz, ad esempio, erano poliglotti, superpoliglotti: sua madre conosceva 7 lingue, il padre ne leggeva 16 e ne parlava 11; nella casa del quartiere Kerem Abraham, due stanze, un cucinino e un corridoio buio sommersi di libri, leggevano per lo più in tedesco ed inglese, e "certamente era l´yiddish ad abitare i loro sogni, la notte"; nella loro scala di valori "tutto ciò che era occidentale, stava culturalmente più in alto: Tolstoj e Dostoevskij erano in sintonia con la loro anima russa, tuttavia credo che - malgrado Hitler - considerassero la Germania più civile della Russia e della Polonia, e la Francia ancor più della Germania. L´Inghilterra era persino più su della Germania", "l´Europa era la loro terra promessa proibita".
I Klausner (questo il cognome originario di Oz che Amos, appena padrone del suo destino, cambiò - ma questo lo vedremo dopo) vivevano in mezzo a tolstojani di ogni tipo, i tolstojani d´aspetto, quelli vegetariani fanatici di cambiare il mondo pieni di fervore pacifista, quegli altri simili a personaggi dostoevskiani, "disgraziati, verbosi, soffocati dagli istinti, rovinati dagli ideali", cacciati da un mondo ormai lontano; per vestirsi eleganti, se potevano, tiravano fuori giacca e cravatta e un fazzoletto odoroso nel taschino.
Anche "la terra d´Israele" però era lontana, "da qualche parte, oltre le montagne, stava maturando una nuova razza di ebrei-eroi, di una specie abbronzata e robusta, taciturna e operosa, affatto diversa dall´ebreo diasporico, dagli abitanti di Kerem Abraham. Ragazzi e ragazze, pionieri, determinati e scuri di pelle, silenziosi, in confidenza col buio della notte. Che anche nelle faccende fra uomini e donne avevano spezzato ogni freno".
Nonno Alexander, zio Bezalel, zia Zipporah ne discutono con disappunto nei sabati passati insieme: ma a volte questi ragazzi e ragazze arrivavano "da oltre i monti di tenebra" sopra un autocarro di prodotti agricoli "vestiti di terra e di armi, scarponi ai piedi" come recitava una canzone, e Amos pensava che laggiù, tra i kibbutz, "si stava costruendo un paese e riformando il mondo", che "laggiù si aravano i campi" "laggiù stava fiorendo una società nuova" "laggiù si cavalcava i carri armati, si rispondeva col fuoco al fuoco arabo" e sognava "segretamente che un giorno o l´altro mi portassero via con loro. Che trasformassero anche me in un popolo combattente. Che anche la mia vita diventasse un canto nuovo, una vita pura, onesta e semplice come un bicchiere d´acqua fresca in una giornata afosa".
Niente paura. Non c´è retorica in Amos Oz. Quel che è detto è smontato mille volte e rimontato secondo nuovi incastri, magari dopo una battuta e un sorriso.
Una società pura, nuova, non era solo il sogno di Amos. Era la certezza, la mèta degli ebrei in Palestina, racconta Oz: qualcuno la concepiva nei kibbutz, nel socialismo; altri in un unione di "Giudaismo e Umanesimo", come recitava un libro dello zio Yosef Klausner, gran "intellettuale nazionalista liberale illuminato", e inventore di moltissime parole nel nuovo ebraico moderno necessario al sionismo; lo zio, quel motto se l´era fatto scolpire in una targhetta sopra la porta di casa, una porta davanti a cui viveva il famoso scrittore Shemuel Joseph Agnon, incontrato da Amos Oz in varie occasioni (ma ci descrive anche certi momenti con Ben Gurion... o con Isaiah Berlin ed altri, piccoli e grandi). Le due visioni, socialista e nazionalista, insieme ad altre innumerevoli sfumature, erano in urto perenne, e Oz le mette in scena, vivaci, vitali, convincenti, oppure deliranti. Chi non ne sa, leggendolo avrà modo di farsene un´idea.
Accanto a tutto, la sconfitta della Shoah, i morti, e i sopravvissuti, parte di un passato a cui nessuno aveva voglia di guardare ma che tuttavia feriva, dilaniava la carne viva. (E gli arabi? gli arabi - sognavano ancora gli ebrei - avrebbero partecipato e goduto della modernità, dell´avanzamento sociale, della libertà che avrebbe toccato tutti, tutti).
Oz dipana questa realtà filo a filo. Siamo in Lituania e in Russia tra storie complicatissime e variopinte di nonni e bisnonni, tra i vicoli arabi di Gerusalemme a provar vestiti con zia Greta, a cercare bottiglie di vetro per fare molotov durante la guerra d´Indipendenza, allibiti e decisi e impauriti di fronte alle notizie degli ebrei uccisi dal rifiuto arabo; a mettere in fila le parole che hanno la stessa radice o gli scrittori che hanno qualcosa in comune; o mentre, bambino, Amos giuoca a fare lo stratega con qualsiasi cosa trovi a disposizione, forcine, scatolette, fagioli, oppure in mezzo alle discussioni dei grandi, tra letteratura e politica. Siamo lì, nel giorno della dichiarazione dello Stato di Israele, durante l´assedio a Gerusalemme. Siamo nel suo letto quando l´adolescenza si fa viva, e quando la prima donna l´accoglierà. Siamo davanti al padre, uomo coltissimo ma modesto, arguto e generoso. Siamo soprattutto nella stanza con la madre, con lei e la sua bellezza, la sua cultura, le emicranie, le insonnie, i lievi motti di spirito, l´inappetenza. Le carezze. La disperazione. Ma è inutile aspettarci una chiave chiara del suicidio: tutto concorre, la quotidianità, la povertà, il ricordo di un´infanzia "felice", sì ecco, forse la memoria dell´Europa e del suo tradimento, e il senso di spiazzamento rispetto ai desideri perfetti del primo sionismo. E poi la comunicazione, anche questa imperfetta, seppure affettuosa, con il marito.
Di chiaro c´è, subito dopo, il rifiuto di Oz, il suo disfarsi determinato, lui quattordicenne, della lugubre prosopopea degli ebrei carichi ancora di diaspora, così intrisi di nostalgia per l´Europa, di falsa e vana eleganza, di dolore. "Volevo che tutto smettesse. O quanto meno desideravo abbandonare per sempre casa e Gerusalemme e andare a vivere in kibbutz: lasciarmi alle spalle i libri e i sentimenti e avere una vita semplice, una vita di campagna, di fraternità e fatica fisica". "Dopo la morte di mia madre, uccisi papà e uccisi tutta Gerusalemme, cambiai nome e andai da solo al kibbutz Hulda, a vivere lassù". Hulda fu la sua casa dal ´54 all´85 e qui si è sposato con Nilli che "cantava sempre tra sé e sé": un matrimonio all´aperto, sotto una kuppah tenuta su dai forconi (come nella foto in alto, ma senza fucili). Quando arrivò al kibbutz, a 15 anni, scrisse su un foglietto alcune decisioni cruciali che si impose come una sorta di esame in cui non poteva fallire, tra cui abbronzarsi entro due settimane, piantarla di blaterare tutto il giorno, di raccontare a tutti i fatti suoi e apparire invece come una persona molto taciturna. L´abbronzatura riuscì benissimo.

Una storia di amore e di tenebra di Amos Oz

Amore e tenebra sono due delle forze che agiscono in questo libro, un'autobiografia in forma di romanzo, un'opera letteraria complessa che comprende le origini della famiglia di Oz, la storia della sua infanzia e giovinezza prima a Gerusalemme e poi nel kibbutz di Hulda, l'esistenza tragica dei suo…