Oz Amos: Ebrei e palestinesi, noi scrittori contro la guerra

23 Giugno 2005
Immaginate un paesino ai piedi di un vulcano sul punto di eruttare. Il vulcano trema e borbotta per tutta la notte, emette fumo e scintille, e di tanto in tanto butta fuori massi incandescenti che rotolano a valle verso il villaggio. Qui, nel villaggio, si trova una donna che non riesce a dormire. Non per la paura del vulcano, ma perché sente suo figlio di sedici anni, che nella stanza vicina si gira e si rigira nel letto senza riuscire a prender sonno. Il ragazzo non riesce a prender sonno, non per il pensiero del vulcano, ma piuttosto perché la sua febbrile immaginazione lo spinge a struggersi per la vedova che vive giù nel vicolo. E anche la vedova sta sveglia tutta la notte, non perché teme il vulcano, ma perché la sua giovane figlia sta frequentando un uomo che ha il doppio dei suoi anni. E anche il vecchio rimane sveglio per tutta la notte, non perché il vulcano è sul punto di eruttare, ma perché vuole disperatamente essere eletto in consiglio comunale, anche se sa di non avere grandi speranze.
Questo scenario descrive Israele in tempo di guerra, in tempo di territori occupati palestinesi, di minacce di distruzione nei confronti di Israele, di terrore, di insediamenti e di paura esistenziale. La vita quotidiana, la routine, va avanti a dispetto di tutto questo, va avanti da un anno all’altro con tutte le sue prosaiche meschinità, e con tutta la grandiosità dei suoi eroismi. Ma questo scenario non è una semplice descrizione di Israele dal giorno in cui fu fondata, nel 1948, a oggi. È anche una rappresentazione della condizione umana. Tutti noi, ovunque ci troviamo, viviamo alle pendici di un vulcano in attività. Nonostante questo, il vulcano non controlla, né possiamo permettergli di farlo, le nostre vite. Le notti sono sempre piene - ed è un bene che lo siano - di desideri, di ambizioni, di ogni genere di progetti e congetture, di piccole speranze e piccole disillusioni, di preparativi per il giorno successivo, di passioni segrete e di ansia infinita verso coloro che amiamo. Ogni notte, tutte le notti, facciamo i nostri sogni, ridicoli, confusi, intensi. E proprio tutto questo è stato, è, e sempre sarà, l’oggetto privilegiato della letteratura della commedia umana. Ora, immaginiamo che, nel villaggio alle pendici del vulcano, viva, oltre alla vedova e a sua figlia, oltre al ragazzo e al politico, uno scrittore. Che cosa farà lo scrittore del villaggio in quelle notti rischiarate dai bagliori della lava? Fino a quando la vedova sarà sveglia e il ragazzo si girerà e si rigirerà nel letto fantasticando, e il candidato misurerà nervosamente lo spazio dalla porta alla finestra, al nostro scrittore non farà difetto il materiale. Invece, la domanda è: ‟Lo scrittore del villaggio ai piedi del vulcano ha anche una qualche responsabilità morale, sociale o politica? Deve alzare la propria voce per protestare? E deve farlo ogni giorno? Per tutto il giorno? O magari solo una volta alla settimana?”. Forse potrei metterla in questi termini: uno scrittore lavora con le parole. Questo impone allo scrittore una responsabilità verso il linguaggio. Ove parole piene di odio vengano brandite come un'ascia contro particolari gruppi di esseri umani, non tarderà a fare la sua comparsa una vera ascia. Lo scrittore può essere il vigile del fuoco del linguaggio, o almeno il rivelatore di fumo. Può e quindi deve. C’è un esempio che mi riguarda personalmente: le parole ‟cosmopolita”, ‟parassita” e ‟intellettuale distaccato” sono etichette spregiative che furono usate sia dai nazisti sia dai comunisti. Mio padre e mia madre, i miei nonni e le mie nonne, furono in gran parte davvero così. Intellettuali europei cosmopoliti. Per i nazisti e i comunisti erano anche parassiti, così negli anni Trenta non esitarono a scacciarli - genitori e nonni - dall’Europa. Se l’Europa non li avesse esiliati negli anni Trenta, la Germania li avrebbe uccisi negli anni Quaranta. Cosmopoliti. Parassiti. Intellettuali distaccati. Uno dei compiti dello scrittore è quello di intervenire e suonare l’allarme ogni volta che il linguaggio, che è il suo strumento di lavoro, viene contaminato. Ogni volta che la gente usa, per un gruppo etnico o religioso o altro, termini come ‟sudicio” o ‟crescita cancerosa” o ‟minaccia strisciante”, lo scrittore deve alzarsi e suonare il campanello d’allarme del villaggio. Un altro punto: uno scrittore è un uomo che al mattino si alza, prende una tazza di caffè, si siede alla scrivania e chiede a se stesso: ‟Cosa succederebbe se fossi in lui? E se fossi in lei?”. Senza mettersi nei panni di un’altra persona, nella sua pelle, non si può scrivere neppure un dialogo elementare. Immedesimarsi con l’altro - non necessariamente amarlo. Non necessariamente essere d’accordo con lui. Non necessariamente sostenere le sue opinioni. Solo, di tanto in tanto, immaginare di essere al suo posto. Un uomo di Gerusalemme dovrebbe fare particolare attenzione a non profetizzare. C’è una lotta all’ultimo sangue nel business delle profezie a Gerusalemme.
Tuttavia, mi assumerò il rischio e offrirò una previsione: quando verrà il giorno - ed è già meno lontano di quanto si possa pensare - quando ci sarà pace tra Israele, lo Stato degli ebrei e di tutti i suoi cittadini, e la Palestina - quando verrà il momento, saremo in grado di annoverare tra i costruttori di ponti per la pace un gruppo di scrittori israeliani e palestinesi che non hanno smesso neanche un momento, anche nel bel mezzo del fuoco e del sangue e della rabbia, di immedesimarsi con l’altro e di chiedere a se stessi: cosa proverei se fossi dall’altra parte?
Secondo me, quel giorno non è poi così lontano. A tutti voi arrivano notte e giorno cattive notizie, così io vorrei portarvene una piccola, ma buona: la grande maggioranza degli ebrei israeliani e la grande maggioranza degli arabi palestinesi sono già pronte a firmare un compromesso concreto per una soluzione con due Stati. Pronte - non felici. I sondaggi popolari, in Israele come in Palestina, mostrano, settimana dopo settimana, che il paziente - israeliano e palestinese - è pronto, pur non essendo entusiasta, per un’operazione che porterà alla creazione di due Stati confinanti. Il paziente si è già rassegnato, più o meno, alla necessità dell’operazione - ma i dottori sono codardi. Con ‟dottori” intendo i leader di entrambi le parti. Nonostante ciò, non passerà molto tempo prima che ci sia un’ambasciata palestinese in Israele e un’ambasciata israeliana in Palestina. Queste due ambasciate saranno a un tiro di schioppo l’una dall’altra, perché una sarà a Gerusalemme Est e l’altra a Gerusalemme Ovest. Quasi tutti gli insediamenti israeliani saranno evacuati, e forse le case dei coloni diventeranno le case dei rifugiati palestinesi, i cui problemi dovranno essere risolti all’interno dello Stato di Palestina ,non in quello di Israele . I confini permanenti si baseranno sui tracciati del 1967, con modifiche attuate grazie ad accordi reciproci. Statuti speciali regolamenteranno i luoghi sacri oggetto di contesa.
Tutto questo succederà in un futuro non distante, perché entrambi i popoli sono già pronti - non contenti, ma pronti - a una soluzione pratica di compromesso. Torniamo al nostro scrittore, quello che vive con i suoi vicini nel villaggio ai piedi del vulcano. Egli deve necessariamente raggiungere un certo compromesso con se stesso e la sua coscienza. Se ignora la crudeltà, il terrore, l’ingiustizia e l’oppressione che lo circondano e si dedica a descrivere il paesaggio mentre la gente intorno a lui viene uccisa, tradisce la sua coscienza di essere umano. Dall’altra parte, se trasforma i suoi scritti in un manifesto rabbioso contro la crudeltà e la violenza e l’ingiustizia, tradisce la sua arte e il suo lavoro. Da parte mia, quando voglio mandare al diavolo il mio governo, scrivo un articolo, non una storia. Maquando sento il bisogno di raccontare una storia - la racconto, di solito con compassione e curiosità e scaltrezza, con umorismo e meraviglia e soddisfazione - , con tutto ciò che possiedo. E racconto la storia perché il bisogno di raccontare e di ascoltare è un bisogno primario, elementare, istintivo, che non dovrebbe essere costretto nei confini della politica o nel recinto della sociologia e dell’ideologia. C’è qualcosa che lo scrittore del villaggio alle falde del vulcano sarebbe meglio non facesse? Sarebbe meglio non rinunciasse alla sua speciale propensione alla visione complessiva. Sarebbe meglio che, quando assume una presa di posizione politica, non la barattasse con un punto di vista semplicistico.
Molti intellettuali europei prendono in giro gli americani in generale, e Hollywood in particolare, per il punto di vista superficiale e infantile tipico dei film western, dove è sempre ovvio chi è il cattivo e chi è il buono. Ma quando gli stessi intellettuali europei esprimono la loro visione del conflitto mediorientale, non fanno altro che sceneggiare un western hollywoodiano. Ma il conflitto israelo palestinese non è un western, è una tragedia. È una tragedia nel senso classico del termine: è uno scontro tra due cause giuste. Gli arabi palestinesi sono in Palestina perché la Palestina è la loro madrepatria. Non hanno altra patria almondo. Gli ebrei israeliani sono in Israele perché, nel corso di mille anni, non c’è stato altro Paese, altra nazione, in cui hanno potuto sentirsi a casa. Come individui, sì. Ma come nazione, gli ebrei non hanno mai avuto altra patria che Israele. In Europa esiste una tradizione intellettuale che mi è aliena e distante. In questa tradizione europea, quando un intellettuale prende coscienza di una sofferenza umana, di un crimine o di uno spargimento di sangue, corre a firmare una petizione. Per esprimere condanna, indignazione, sdegno e ripugnanza. Per puntare un dito accusatore. Fatto questo, sente di aver adempiuto ai suoi obblighi morali. Io provengo da una tradizione diversa. Dall’eredità della cultura ebraica. Si potrebbe anche chiamarla l’eredità morale del dottor Anton Cechov. Se vi trovate sul luogo di un grave incidente automobilistico, o di una scena violenta, la vostra prima responsabilità non è quella di condannare colui che, guidando, ha causato l’incidente, ma piuttosto di aiutare i feriti. Di medicare le ferite. Di portar loro dell’acqua. O di chiamare soccorsi. O per lo meno di tenere la mano dell’uomo ferito.
Spesso, faccio meno fatica a comunicare con palestinesi pragmatici che con gli amici della Palestina in Europa. I miei incontri con palestinesi pragmatici sono vicini a una conversazione tra dottori in camice bianco nel reparto di terapia intensiva di un ospedale. Qualche volta non siamo d’accordo sull’urgenza di un trattamento, sull’efficacia o sulle controindicazioni di un medicinale. Rimandiamo il discorso su chi è colpevole, o chi è più colpevole, o chi ha iniziato, o chi dovrebbe essere condannato, al momento in cui il sangue smetterà di scorrere. Entrambi i popoli sono ormai pronti per un compromesso.

Amos Oz

Amos Oz (1939-2018), scrittore israeliano, tra le voci più importanti della letteratura mondiale, ha scritto romanzi, saggi e libri per bambini e ha insegnato Letteratura all’Università Ben Gurion del Negev. …