Francesco Dezio: Il sabato del villaggio nel distretto del salotto

07 Luglio 2005
Quando sono arrivato lì eravamo in tre a stare in ufficio. C’era un ragioniere, assunto in pianta stabile e poi un ragazzo che si occupava della produzione. Questo qui svolgeva le cosiddette note di lavorazione, sviluppava le minute . Come amministrativo, diciamo mi competeva la parte commerciale. Venivo da una specie di ripiego che mi ha tenuto impegnato un paio di mesi, poi è arrivato questo vecchio conoscente che mi propose di tornare a collaborare. In passato avevo già lavorato per lui, finché non si era presentata un’altra occasione per me più redditizia, occasione anche per lui, che poteva dimostrarmi quanto ci tenesse a me. Ma non lo fece. Non che gli avessi fatto delle proposte indecenti, ma evidentemente le ritenne tali da farlo spaventare. Mi fece capire che poteva fare benissimo a meno, me ne andai. Passati tre anni, cercavo ancora lavoro. Aveva saputo non so come o da chi che ero libero e mi ricontattò. L’azienda? Una di queste piccole realtà presenti sul territorio, un salottificio.
La linea dei modelli nasceva quando la ditta entrava in contatto coi modelli nuovi durante le fiere, allora adottavamo appositi sistemi per copiare dai leader del mercato globale. Copiavamo i modelli che si facevano alla Natuzzi, il re dei divani, il quotato a wall street. Cos’altro sappiamo, sappiamo che ha due sedi commerciali, una si trova a Shangai e l’altra ad High Point, nel North Carolina. Fa un certo effetto quest’ultimo edificio, concepito secondo canoni architettonici avveniristici, l’ho visto in una foto, in prospettiva sembra la prua di una nave pronta a salpare verso il futuro. Ma il timone di comando è sempre a Santeramo in Colle, è lì che si fa la progettazione, è lì che sta lui.
Copiavamo questi modelli e poi li chiamavamo con nomi di donna, tipo Anna, Marilena, Tonia, Silvia, Elena, Sabrina, Alessandra e così via. In ogni posto come questo c’è la presenza di un modellista, detto anche prototipista. Generalmente il tappezziere più anziano, che ha maggior esperienza, sa riconoscere a vista tutti i difetti della pelle, può arrivare a prendere anche tremilaecinquecento euro se è veramente uno bravo. È l’uomo chiave, l’incaricato a smontare i divani, a rilevarne le misure, grazie al quale può avere luogo la trasformazione. Basta mettere assieme sei punti di differenza rispetto al modello originale e nessuno ti può far causa. Così non c’è una progettazione seria dietro queste fabbriche qui, un creativo o uno stilista. È il prototipista che crea i modelli nuovi da portare in fiera, perché tutto gira intorno a questa cazzo di fiera. Ogni due mesi ce n’è una.
Che io sappia, mettere su uno stand costerà tra i ventimila e i quarantamila euro, dipende da quanto spazio occupi e dalla posizione di privilegio all’interno del padiglione. Se sei di piccolo calibro sviluppi quei tre quattro modelli e stai a posto, non serve andare oltre. Una media impresa può sfornartene anche centocinquanta di modelli nuovi. Qualcuno si rivolge a qualche architetto o designer del posto, sempre una collaborazione esterna, ma il sistema del copiare dai grossi marchi è quello più diffuso.
Ci si vedeva quando c’era la pausa o quando capitava di festeggiare un compleanno, anche fuori dell’orario di lavoro. Qualche serata allegra. Ma è preferibile non litigare perché se tu fai lite con una persona con cui stai quotidianamente gomito a gomito ti sei scavato una fossa. Già c’hai la rottura di coglioni che devi stare lì. Prendiamo il ragioniere, quando ho capito che tipo era gli ho preso le misure e non è che gli concedessi tutta sta confidenza. Con lui era sufficiente parlare della juventus e basta. C’è stato anche il tentativo di parlare di musica. Ma era a giocare. Perché si parlava di Toto Cutugno.
Ero il più grande d’età, poi a scalare veniva questo ragioniere e questo ragazzo che organizzava la produzione, di ventisei anni. Eravamo abbastanza affiatati, a parte il ragioniere che era un mezzo cretino. Ma è durato poco perché poi di lì a qualche mese ha avuto una diatriba col titolare, cose sue, comunque sempre per questioni di stipendio. Se n’è andato. Mossa azzeccatissima. Mai più incontrato, nemmeno in paese. Comunque era un ragioniere. Squadrato, di quelli che non vanno oltre la punta del proprio naso. Un ragioniere.
E tu se gli chiedevi a cosa aspiravano la maggior parte di questi ragazzi ti rispondevano che si volevano sposare, farsi la casa, sposare, farsi la casa. Sempre questi erano i ragionamenti. C’era ad esempio questo ragazzino, il responsabile della produzione, che mi faceva veramente ridere. Ricordo aveva sottoscritto uno di quei programmi di risparmio con una di queste banche, si era impegnato una cifra, un diecimila euro, credo, una cosa del genere e lui sognava ad occhi aperti su quanto gli potessero poi fruttare questi soldi. Di lì a qualche mese è successa la storiaccia di banca121. I suoi soldi, sai, li aveva messi lì. Me lo ritrovo col muso lungo. Io che continuo a martellargli la storia dell’investimento e che ogni tanto lo rassicuro, gli dico che magari è una balla, una delle tante raccontate dai media. Un ragazzo spensierato, fondamentalmente. Che pensava sì a lavorare ma anche giocare, divertirsi. Quella mattina è stato molto divertente andare in ufficio.
Un migliaio di metri quadrati, vicino Gravina. In completa campagna. Una costruzione abusiva, ricavata in zona agricola. Uno di questi opifici di fortuna che prima poteva essere un deposito o una stalla, fatto rientrare nei condoni, con l’aiuto dei soliti politici. C’era l’acqua e mi sa che era allacciata anche la rete fognante. Un rettangolo senza nessun progetto architettonico, disegno o come vogliamo chiamarlo. All’interno di questo spazio erano stati ricavati i box degli uffici. E, chiaramente, si trovavano anche i reparti taglio e cucito.
La manodopera era formata da ragazzi che potevano avere dai 16 a massimo 24 anni. Gli anziani ricoprono, giustamente, i ruoli più importanti. Difficilmente se ne vanno, sono retribuiti bene, hanno delle responsabilità, sono uomini di fiducia e via discorrendo, ma al di fuori di questi ambiti molto ristretti che, dicevo, sono il prototipista, il responsabile della produzione, della falegnameria, per il resto io ho visto solo dei ragazzi piccoli.
L’orario era dalle otto all’una e poi dalle tre alle sette di sera. E il sabato mattina, che toccava a tutti. Quelle cinque ore che stavamo lì si lavorava un’oretta e poi il resto era a parlare di partite e di stronzate varie. Il contratto era di quaranta ore, noi ne facevamo cinquanta. C’erano quindi dieci ore di straordinario non pagato, che non risultavano da nessuna parte. Ma non è questo il punto. Al primo colloquio che facemmo gli dissi che accettavo la proposta ma che avevo bisogno di garanzie proprio a riguardo dell’orario, io potevo venirgli incontro i primi due mesi, finché non prendevo confidenza con la procedura, ok per le nove ore quotidiane però il sabato non contare su di me perché non ci sarò. Passò l’estate arrivammo quasi a natale, iniziai a puntare i piedi, gli dissi che il sabato avevo da fare i cazzi miei, gli ricordai un po’ come eravamo rimasti d’accordo, continuava a fare orecchi da mercante, e io che gli dicevo c’ho da sistemare casa, c’ho da riordinare da pulire tutti i cazzi che non è che devo stare a spiegare a te. Ah va beh, tu stai facendo questa mossa perché non ti basta lo stipendio che ti do. Guarda, gli dissi, ti dimostro subito che non è così, valuta quanto vale per te il sabato mattina e me lo detrai dalla busta paga. Non è per i soldi che lo faccio, forse non hai capito. È per essere più libero. Se io con tutte le mie cose arrivo al venerdì sera che ho fatto tutto è logico che se una settimana sto più pieno di lavoro posso anche pensare di venire il sabato ma non lo puoi pretendere, non dev’essere una regola, la dobbiamo togliere questa regola, insomma, lo dissi anche ai ragazzi, organizziamoci.
Quella volta che gli parlai mi fece capire che poteva esserci uno spiraglio, che il discorso era fattibile ma più in là, tra noi se ne parlava e che se l’esigenza sua era di avere almeno una persona in ufficio il sabato, noi gli saremmo venuti incontro quindi si prospettava la possibilità di fare una rotazione, il discorso fu rimandato all’anno successivo, che stavamo sotto natale, si va bene ma poi c’era di mezzo la fiera e di nuovo non si ebbe tempo. Non si aveva mai tempo e il malcontento aumentava, non succedeva mai nulla. Con gli operai la faccenda era più limpida perché funzionava per quello che gli producevano, quindi se gli dicevano oggi ci devi produrre dieci divani e ci volevano ad esempio nove ore, gli pagavano quelle nove ore che facevano.

Francesco Dezio

"Sono nato nel 1970 nella città del pane e dei salotti (ma potrebbe diventare presto anche la città del carboncello o della salsiccia tagliata a punta di coltello – diciamo …