Stefano Rodotà: L´emergenza non neghi la democrazia

11 Luglio 2005
All´indomani dell´attentato di Madrid, in un clima di comprensibile emozione e con una campagna elettorale alle ultime battute, il re Juan Carlos si rivolse agli spagnoli con parole che riecheggiavano un´espressione ben nota alla cultura politica americana, sottolineando con forza che ‟i mali della democrazia si curano con più democrazia”. Lo stesso spirito si ritrova nelle parole della regina Elisabetta, che non ha voluto soltanto affermare ‟non cambieremo il nostro stile di vita”, ma ha aggiunto in modo assai significativo che ‟atrocità come queste non avranno altro risultato se non quello di rafforzare il nostro senso della comunità, la nostra umanità, la nostra fiducia nello Stato di diritto”.
Nei momenti difficili è essenziale l´esercizio della memoria democratica, anche se l´ironia della storia ci porta oggi a trovare riferimenti in quel che viene da una istituzione non legittimata democraticamente, qual è la monarchia. Ma non è retorica ricordare il fondamento democratico delle nostre società, e quell´eredità comune e irrinunciabile che si chiama Stato di diritto. Viviamo un doppio smarrimento: quello derivante da una strategia terroristica che fa di ogni persona un possibile bersaglio e quello che nasce da una crisi dell´idea di Europa. Il congiungersi di questi fattori può indurre in singoli e Stati una reazione egoistica al si salvi chi può, costi quel che costi. Guai se sotto l´attacco esterno si sgretolasse il tessuto di valori che tiene insieme gli europei, al di là di interessi e contingenze, e l´Europa dimenticasse il suo essere "terra di diritti", secondo la felice espressione adoperata dal nostro presidente della Repubblica nel suo alto discorso davanti al Parlamento europeo.
La memoria democratica ci dice anche un´altra cosa. Se la democrazia è riuscita a sconfiggere i suoi nemici, ciò è avvenuto in primo luogo perché si è in ogni momento presentata come il luogo della libertà, dove tutti avrebbero potuto affrancarsi dalle mille servitù alle quali si è soggetti nei sistemi autoritari. Per questo, insistentemente, fin dal tempo del terrorismo interno, dagli anni di piombo, si ripete che la reazione ad attacchi tanto gravi non può consistere in uno stravolgimento di libertà e diritti in nome della sicurezza, perché in questo modo la nostra società assumerebbe quella faccia violenta che i terrorismi vogliono attribuirle per giustificare le loro aggressioni. E così perderebbe la possibilità d´essere punto di paragone rispetto a tutto ciò che è illibertà e violenza, dunque la stessa legittimazione a combattere il terrorismo. Per salvarsi, la democrazia non può negare se stessa.
Il clima di guerra nato dal terrorismo senza confini ci obbliga a fare i conti assai più drammaticamente con questa verità scomoda. Scomoda, perché sembra rivelare una debolezza intrinseca della democrazia, quasi un suo essere impari alle sfide che continuamente le vengono portate. Ma, per un verso, essa si presenta come una debolezza "codificata", tale dunque da non poter essere rimossa senza violare regole essenziali per il corretto funzionamento dei nostri sistemi politici. D´altra parte, se appena si approfondisce la riflessione, si scopre che siamo di fronte all´apparenza, non alla sostanza, di una debolezza.
Nella Convenzione europea dei diritti dell´uomo si ammettono limitazioni di diritti in nome della sicurezza, a condizione che queste si presentino come misure necessarie "in una società democratica". Non basta, dunque, dimostrare che una restrizione di libertà e diritti può rivelarsi utile nella lotta al terrorismo. Per essere ammissibile, deve superare un test di compatibilità con l´ineliminabile natura democratica delle nostre organizzazioni sociali. Le parole ricordate all´inizio ribadiscono la fedeltà a questo principio.
Ma la critica democratica a leggi giustificate con la pura logica dell´emergenza ha sempre avuto anche la funzione di segnalare l´inefficienza di molte di quelle norme. Se riandiamo alla stagione del terrorismo italiano, alle dure polemiche intorno all´introduzione di un istituto fortemente restrittivo della libertà personale qual era il fermo di polizia, le relazioni al Parlamento del ministero dell´Interno consentono di scoprire senza fatica che mai quello strumento è servito per intercettare un terrorista. Se si considerano i dati riguardanti i controlli di massa sui passeggeri delle linee aeree entrati negli Stati Uniti, si scopre che, alla fine del 2004, erano stati effettuati otto milioni e mezzo di controlli, che le persone sospette erano state 281 e, tra queste, non vi era neppure un terrorista. Se osserviamo il paese più videosorvegliato del mondo, guarda caso la Gran Bretagna, ci si imbatte in un rapporto consegnato al primo ministro agli inizi di giugno dal quale risulta come questa forma di controllo di massa abbia dato risultati modestissimi in molte situazioni.
Se si fosse accolta la critica di chi denunciava l´incompatibilità di quelle diverse misure con le garanzie costituzionali, si sarebbero percorse altre strade per tutelare la sicurezza, insieme più democratiche e più efficienti. La presunta debolezza dei sistemi democratici, determinata dall´obbligo di rispettare le garanzie previste, si converte così in un fattore che può invece spingere all´impiego di strumenti adeguati. E a chi invoca il pugno duro, ed alza la voce sprezzando le regole democratiche in nome della tutela della vita e della sicurezza, bisogna pur ricordare le stragi di innocenti determinate da un uso scriteriato della forza in un teatro di Mosca o in una cittadina cecena, con un numero di vittime superiore a quello degli attentati di Londra.
In realtà, le leggi di emergenza, emanate come risposta a situazioni di crisi, adempiono spesso a funzioni che poco hanno a che vedere con la sicurezza. Poteri politici deboli e confusi abbandonano ogni capacità di governo e secondano l´inevitabile emozione dell´opinione pubblica, cercando di rassicurarla con proclami senza effetti. Apparati pubblici inefficienti cercano di distogliere lo sguardo dalla loro incapacità di lavoro rifugiandosi dietro l´inadeguatezza delle norme. Settori dell´amministrazione cercano di usare le emergenze per aumentare i loro poteri in direzioni che nulla hanno a che vedere con la lotta al terrorismo. Ancora una volta bisogna ripetere che le leggi di emergenza sono, insieme, inutili e pericolose. Inutili, perché in genere falliscono l´obiettivo per il quale sono emanate. Pericolose, perché favoriscono comunque il sedimentare di una cultura non democratica, violano diritti, alterano gli equilibri tra i poteri.
Le strategie contro il terrorismo devono tener conto di questa esperienza accumulata, come ben mettono in evidenza le analisi più ragionate svolte in questi giorni. L´invocazione della democrazia, come valore da preservare e quindi come limite invalicabile, si traduce nella necessità e urgenza di politiche consapevoli.
La riduzione del terrorismo a pura questione di ordine pubblico internazionale, l´uso della categoria "guerra" per concentrare l´attenzione solo sull´intervento militare hanno finora ispirato mosse sostanzialmente fallimentari. Mai come in questi tempi la guerra, infinita o no che sia, è apparsa tanto lontana dalla sua definizione come prosecuzione della politica con altri mezzi: è divenuta sostituto o surrogato di una politica che non è riuscita ad esprimere un antagonismo democratico di fronte all´attacco violento proprio ai valori della democrazia. La spirale perversa, che ormai ci avvolge tutti, può essere rotta solo partendo da qui. Torna prepotente la necessità di tornare ad usare il riferimento alla pace come categoria forte, capace di dare forma a politiche che finalmente si misurino con la complessità dei problemi che abbiamo di fronte, dopo che la scorciatoia bellica si è dimostrata addirittura controproducente.
Si insiste, di nuovo, su una politica di intelligence come parte essenziale di questa strategia, e già si mettono in luce le manchevolezze di quella inglese, come già era stato fatto per quella americana dopo l´11 settembre. Ma Giuseppe D´Avanzo ha mostrato benissimo che non siamo di fronte soltanto ad un problema tecnico, che pure esiste e che è fatto di maggiore efficienza e di più intensa e convinta collaborazione tra polizie e servizi di sicurezza dei diversi paesi. I limiti dell´intelligence sono sempre anche l´effetto dei caratteri, e dei limiti, della politiche nel cui contesto quelle attività si svolgono.
Al fallimento della rassicurante e totalizzante strategia bellica corrisponde il fallimento della rassicurante e totalizzante strategia di indagine e prevenzione affidata soprattutto ai controlli di massa. Di nuovo, non solo per il rispetto delle libertà e dei diritti, ma in nome dell´efficienza, è necessario richiamare l´attenzione su indagini mirate, su procedure non arbitrarie.
Così sarà anche possibile allontanare il rischio, già presente, di accrescere l´angoscia sociale. Bisogna evitare che i cittadini, che già si percepiscono come potenziali bersagli, si sentano tutti guardati come possibili sospetti. L´"impero della paura", che il terrorismo vuole imporre, non deve trovare incentivi anche in comportamenti degli Stati democratici.

Stefano Rodotà

Stefano Rodotà (1933-2017) è stato professore emerito di Diritto civile all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha insegnato in molte università straniere ed è stato parlamentare in Italia e in Europa. …