Paolo Rumiz: I moderati senza voce. L’Islam italiano (2)

18 Luglio 2005
Nome: Khalid. Età: 21. Nascita: italiana. Famiglia: tunisina. La sua faccia è affilata, olivastra, occhi neri e barbetta, maghrebino doc. Il suo lavoro è smistare pacchi per una ditta di spedizioni, suonare campanelli, sorridere, consegnare. Ebbene, dal 7 luglio, la sua faccia - e anche la sua età, la stessa degli attentatori di Londra - è entrata in cortocircuito col suo lavoro. A ogni pacco che consegna, legge il sospetto negli occhi dei clienti, anche dove sospetto non c’è. Teme che l’altro lo tema. E poiché non riesce a nascondere quest’ansia, i suoi occhi sprigionano qualcosa di simile a un’ammissione di colpa, che subito inquieta l’interlocutore. Funziona così la macchina della paura. Risultato: Khalid non dorme più, è entrato in una spirale di paranoia. ‟Che faccio - chiede - mi taglio la barba? Mi metto in ferie aspettando che passi? Torno in Tunisia? Mi rifugio nel branco in moschea? Questo è il mio Paese, ho scelto di vivere qui. Ma ora mi sento solo. Vedo sguardi di paura in chi mi incontra. Paura che capisco, quello che è accaduto a Londra è allucinante. Ma ora il sospetto dilaga, non si distingue più tra brava gente e malepiante, non so che immagine di me trasmettono le tv, non so cosa provoco nella testa di quelli che sono italiani da generazioni. Mi sento sempre sotto esame. Come se mi si chiedesse di dimostrare ogni giorno, ogni ora, la mia italianità, la mia esecrazione per i morti del terrorismo, la mia fedeltà alla nazione. Tutto questo è terribilmente faticoso. Ho i nervi a fior di pelle”.
Guardaci bene, sembra dire ironicamente Khalid. Siamo noi, le serpi in seno, la seconda generazione degli immigrati, la stessa che ha colpito in Inghilterra. Noi, il nemico interno dell’Italia, obiettivo prossimo venturo del terrorismo islamista. Noi, reclutati dai mercanti di morte. è così che si sentono i giovani musulmani del nostro Paese, quelli nati e cresciuti qui. Schiacciati tra l’offensiva degli estremisti e la stretta della sicurezza in Italia. Spaventati dall’identikit degli attentatori inglesi - un profilo così simile al loro, famiglie inserite, studi compiuti con successo, perfetta padronanza della lingua - e dall’ansia di chi in Italia li sente come presenze "infedeli" nello Stato che li nutre. In bilico tra le radici dei genitori e l’appartenenza alla patria. Orfani di entrambe le sponde. Sono in tanti quelli come lui, spiega Adil El Madouakhi, responsabile di "Mondoinsieme", centro-pilota di confronto tra immigrati in provincia di Reggio Emilia. ‟Appartengono a una generazione sacrificale, che deve arrangiarsi da sé, farsi strada da sola, combattere su due fronti, rispondere di cose di cui non è responsabile. Spesso i genitori li schiacciano, ma anche la società adottiva li bastona nell’autostima, li tratta da immigrati anche se non lo sono, non li aiuta a uscire dal ghetto. I nostri modelli di accoglienza non reggono alla prova dei fatti”. è qui, in questi giovani "borderline", che nasce lo spaesamento. Ed è qui, tra i giovani di famiglia musulmana, che i persuasori occulti venuti da chissà dove pescano la manovalanza del terrore.
Bologna, capannoni di periferia, cicale inferocite dal sole, consolato marocchino con bandiera al vento, chiosco di kebab dove fanno merenda i maghrebini in coda per i visti, o in pausa-pranzo dal lavoro. Musica araba in sottofondo; il gestore, Radvani, sorride e serve bibite fresche allo yogourth. Solo le targhe ti dicono che non sei a Marrakesh. Abdul ha 22 anni, è nato in Italia anche lui da famiglia di Casablanca, lavora come falegname, sta cercando casa per staccarsi dai genitori, ma da una settimana tutto gli è diventato difficile. La nascita e la cittadinanza italiana non bastano più, ora è il nome che conta, ovviamente in senso negativo. C’è sempre Londra sullo sfondo, quei ‟criminali pazzi che non rappresentano l’Islam”. Vorrebbe dire di più, ma deve scappare al lavoro. Moschea di viale Pallavicini, un capannone tra i capannoni e boschetti di acacie, sole da bestie, città che diventa campagna e giallo bruciato delle stoppie. Con un gruppetto di fedeli si parla della via Emilia, orientata verso la Mecca già secoli prima del Profeta, e che, per via della centuriazione romana, allinea curiosamente anche le case in quella direzione. L’imam e factotum Nabil Bayoumi brontola contro Saddam, ‟cane degli Americani” e Gheddafi, ‟un criminale”. E quando si viene ai fatti di Londra e ai giovani che li hanno eseguiti. Alì, 18 anni, papà libanese e mamma italiana, nato a Bologna, mette le mani avanti come tutti, per evitare fraintendimenti. La condanna è inequivocabile. Va oltre: ‟Se succedesse qui, sarei il primo a difendere il Paese”. E aggiunge: ‟La civiltà occidentale ha grandi valori, ma proprio per questo non ha bisogno delle armi americane”.
Treno locale Bologna-Modena, sole che tramonta dietro gli Appennini, nubi di zanzare in decollo sui canali. Manar, 21 anni, viaggia in seconda classe con un foulard ciclamino sui capelli. è nata a Reggio da famiglia egiziana, ha dovuto superare le diffidenze incrociate dei genitori e della società, ma è diventata titolare di un centro vendita di telefonini. Ora che può mantenersi in autonomia, si iscriverà all’università, culture orientali. La strage inglese l’ha distrutta, e da una settimana, nel tempo libero, studia su Internet e via posta elettronica le reazioni dei britannici alla scoperta che gli attentatori sono ventenni come lei. ‟Ho provato - spiega - un dolore indescrivibile a sapere che quelli erano nati e cresciuti attorno a Londra”. Un tradimento, dice, anche contro di noi, che lavoriamo per costruire ‟un ponte tra la nostra fede e la nostra cittadinanza”. Un signore seduto di fronte a lei le chiede di dov’è, e lei dice ‟italiana”. Poi aggiunge, con accento emiliano tosto: ‟Di famiglia egiziana. E non sono terrorista”. L’altro ci resta un po’ male, poi sorride. Manar sente come un sismografo il distacco, la curiosità, la paura della gente. ‟Non li biasimo - dice - capisco benissimo cosa possa passare per la testa in giorni come questi”. Da quando la tensione è in aumento, la signora Kaha Mohammed Aden, 30 anni, somala, insegnante di sociologia all’università di Pavia, ha sostituito il primo cognome - inequivocabilmente musulmano - con una semplice M. Emme punto. ‟Mohammed attirava troppa curiosità - dice - ed ero stanca di dovermi giustificare continuamente, visto che non c’entro niente col terrorismo. Altre donne reagiscono spavaldamente, mettendo il velo. Io ho scelto così”. Ha un peso sullo stomaco: ‟Esiste solo chi ha voce, e oggi sono visibili solo gli assassini. La stampa e la politica danno voce ai radicali, rafforzandone la posizione nella comunità. I moderati non parlano perché non rappresentano nessuno. Io non rappresento nessuno. E oggi dare voce a chi non ne ha è importantissimo”.
Anche Osama Assagir, capo dei Giovani Musulmani d’Italia, studente in scienze politiche a Padova, è rimasto bastonato dal profilo degli attentatori londinesi. ‟I terroristi cercano effettivamente di sfondare nella linea della seconda generazione. Lo hanno fatto in Inghilterra, possono farlo anche qui. Ma sono anche convinto che questa bomba si disinnesca prima di tutto sul piano della cultura e dell’integrazione. Non basta la sicurezza. Noi del Gmi cerchiamo di coniugare una fedeltà forte all’Italia con la nostra libertà religiosa. Ma proprio questa nostra generazione è lasciata ai margini, in questo momento cruciale”.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …