Marco D'Eramo: Usa. Rita l'atomica

26 Settembre 2005
Traumatizzati da giorni di martellante tv sulle devastazioni di Katrina, adesso 2,5 milioni di americani fuggono in preda al panico l'uragano Rita. Un esodo funestato, ancor prima che dal ciclone, dall'incendio di un pullman carico di vegliardi bruciati dalle bombole d'ossigeno che fino a ieri li tenevano aggrappati alla vita. Centinaia di migliaia di auto sono imbottigliate in ingorghi di 200 km sulle autostrade che escono da Houston e Galvestone. Prese d'assalto, le pompe di benzina sono ormai a secco. Dopo un giorno intero di motore acceso, i serbatoi si svuotano l'uno dopo l'altro, lasciando gli ormai inutili veicoli a intralciare ancor di più il traffico. Moltitudini di famiglie attendono di essere evacuate dal cielo. La guardia nazionale cerca di paracadutare cisterne di carburante. In tutta la giornata di ieri le auto si sono mosse a 7 km l'ora. Impiegano cioè 14 ore per percorrere 100 km. A questo ritmo, centinaia di migliaia di texani saranno ancora intrappolati sull'autostrada quando l'uragano Rita colpirà il Texas orientale, questa mattina ora italiana. È terrorizzante l'idea di dover affrontare raffiche da 230 km l'ora protetti solo da un guscio di latta: l'ansia per i propri cari, per la propria vita, il senso d'impotenza, il non poter far nulla, solo aspettare, ascoltando alla radio sempre meno credibili promesse di soccorso, e sperare che Rita perda la sua violenza o devii dal suo cammino.
L'immane ingorgo autostradale ci offre così una sconvolgente anteprima di come morrà la civiltà dell'automobile: ingabbiata dalle sue autostrade, sotto un cielo plumbeo, premonitore di nubifragio, in una piana spazzata dai mulinelli di terriccio. Questi texani sono oggi letteralmente prigionieri dell'american way of life. Si trovano intrappolati da tutto ciò che ritenevano fossero le doti migliori della loro società: ubbidienza alle autorità che hanno ordinato l'evacuazione di massa, rapidità di riflessi, capacità d'iniziativa individuale, fiducia nel trasporto privato, e fede, quasi religiosa, nell'auto come strumento di libertà e salvezza. Ma, si sa, perfino di fronte all'evidenza i credenti si abbarbicano alle loro divinità, fossero anche su quattro ruote.
Se non si profilasse una tragedia, questa vicenda suonerebbe involontariamente ironica verso quei texani che da un secolo e mezzo si vantano di essere ‟talmente indisciplinati da non obbedire neanche alla forza di gravità”. Tutti questi milioni di ‟indisciplinati” vivono in private, lignee villette unifamiliari che, proprio per questo, si schiantano come fuscelli al vento sotto la furia di cicloni anche modesti, a differenza degli edifici multifamiliari in muratura e cemento che sono ben più resistenti, come ci mostra il Giappone. Per queste casette individuali, destinate alla distruzione, i loro proprietari si sono accollati mutui lunghi una vita, e ora che devono abbandonarle, fuggono a bordo dell'auto privata, dei loro individuali, mastodontici, Sport Utility Vehicles (Suv) assetati di benzina, cercando una salvezza ancora una volta individuale. Ma l'esito di tutte queste traiettorie individuali è una totale paralisi collettiva.
È questo paradosso ad aver prodotto il ribaltamento di tutti i luoghi comuni tra mondo sviluppato e Terzo mondo, malgrado l'indifferenza che circonda i lutti di quest'ultimo: pochi giorni fa più di mille bengalesi sono periti per un ciclone, ma sono passati inosservati; lo tsunami che nel dicembre scorso colpì il sud est asiatico fece 200.000 morti, ma la copertura mediatica è stata molto superiore per i meno di 900 morti di Katrina: 200 srilankesi contano meno di un opimo occidentale. Eppure, se la vita mediatica di un indiano vale molto meno dell'esistenza televisiva di un texano, ciononostante - lo ha notato giovedì Joseph Stiglitz su ‟Repubblica” - paesi ‟poveri” e ‟arretrati” come Indonesia, India, Thailandia si sono presi cura dei propri cittadini maremotati con molta più efficienza, rapidità, solidarietà civile che gli ipertecnologici, ricchissimi, potentissimi Stati uniti. Non solo.
Quest'America imbottigliata rivela un aspetto ancora più nascosto, più profondo. Non è un caso se quest'esodo richiama alla mente le immagini degli sfollati. Come se i texani fuggissero a un invasore che avanza ineluttabile, come se avessero perso una guerra contro un nemico: ecco, è stata detta la parola guerra. È incredibile come questi due uragani, Katrina e Rita siano stati sussunti sotto le categorie belliche (lo aveva già osservato giorni fa Giovanni De Luna su ‟La Stampa”): sui giornali, in tv, nei discorsi dei politici, è tutto un ‟far fronte”, un ‟difendersi” dalla ‟minaccia contro l'America”.
La militarizzazione delle emergenze naturali che colpiscono gli Usa è a tal punto interiorizzata da tutto il mondo, che Katrina è stata rivendicata persino da Al Qaeda. Questa visione bellica delle catastrofi sottintende a sua volta due concezioni profonde e radicate. La prima è che nel pensiero politico statunitense la dimensione militare sembra ormai l'unica in cui ha legittimità, è anzi considerato necessario l'agire collettivo: l'unico spazio dell'iniziativa pubblica è quello bellico nell'ideologia dello stato ultraminimo diventata negli ultimi decenni senso comune negli Usa.
La seconda è l'idea che la natura sia un avversario da domare, da battere, da sottomettere: ed è qui che il cerchio del discorso militare si chiude: con Katrina e Rita l'America ha scoperto di essere vulnerabile di fronte alla natura come l'11 settembre 2001 le aveva rivelato la vulnerabilità di fronte al terrorismo. D'altronde, il nome Rita richiama Rita Hayworth cui quei burloni di aviatori americani dedicarono la prima bomba atomica che sganciarono su Hiroshima, quando la chiamarono Gilda (‟l'atomica Gilda”, dal nome di uno dei suoi personaggi).
Come i militari, anche i meteorologi devono essere afflitti da inguaribile misoginia, se continuano ad affibbiare soavi nomi femminili a devastanti, mortiferi uragani.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …