Enrico Franceschini: Londra apre le porte della City. È record di scalate dall'estero

04 Novembre 2005
Quando un’importante azienda nazionale viene acquisita da una società straniera, la notizia finisce su tutti i giornali. Ma quando quattro aziende di uno stesso Paese ricevono nello stesso giorno offerte di pubblico acquisto da società straniere, l’episodio diventa un caso, una tendenza, un fenomeno. E’ successo questa settimana nel Regno Unito: quattro compagnie britanniche, con un capitale di mercato complessivo di 35 miliardi di euro, sono diventate contemporaneamente oggetti del desiderio di imprese estere. Tra le quattro, spiccano la O2, società di telefonia mobile, su cui ha avanzato un’offerta d’acquisto la spagnola Telefonica; e la Peninsular & Oriental Steam Navigation, più nota come P&O, linea marittima che trasportava soldati e merci ad ogni capo dell’Impero britannico, oggi conosciuta dai turisti per i suoi traghetti sulla Manica, su cui ha avanzato una Opa la Ports World, compagnia di armatori del Dubai. Per combinazione, nel medesimo giorno, la commissione antitrust britannica ha dato via libera, a determinate condizioni, alla possibile acquisizione del London Stock Exchange, la Borsa di Londra, da parte di EuroNext, la società che gestisce le borse di Parigi e Amsterdam: il boccone più grosso di tutti, per un valore di 4 trillioni di euro. Non si tratta, evidentemente, di coincidenze. Il Financial Times ha aperto la prima pagina sul quadruplo tentativo di acquisizioni, sottolineando che dal boom del 2000 della New Economy non si registrava nel Regno Unito un flusso così intenso di take-over. La Borsa londinese ha salutato l’evento con una crescita del 2 per cento, migliore prestazione degli ultimi due anni e mezzo. E gli analisti finanziari hanno colto l’occasione per celebrare il ‟modello britannico”, il mercato aperto, senza frontiere, senza paura delle invasioni straniere, motore del boom economico di questo Paese. ‟Se fosse accaduto in Francia quello che è accaduto da noi - ironizza il Times - l’Eliseo avrebbe fatto le barricate, tenuto conto che qualche mese fa è bastato un interessamento dell’americana Pepsi-Cola verso la Danone per spingere Chirac a convocare un consiglio di guerra”. Non è sarcasmo: il primo ministro francese de Villepin, in effetti, dichiarò che la Danone è ‟uno dei gioielli della nostra industria” e che il governo intendeva difendere ‟gli interessi della Francia”, nazione - come è noto - che prende sul serio la gastronomia, per tacere dei formaggi. Ma la Francia, che ha introdotto un progetto di legge per proteggere le aziende da scalate straniere, non è l’eccezione. In Italia vige un protezionismo analogo, come hanno dimostrato, per citare un settore, le strenue difese del governatore della Banca Centrale Fazio per bloccare la ‟colonizzazione” straniera delle nostre banche: e probabilmente Fazio non ce l’ha fatta a evitare il take-over olandese della Antonveneta solo per il pasticcio in cui si è cacciato con le intercettazioni telefoniche. O prendiamo il settore dell’auto, dove la Gran Bretagna ha perduto senza batter ciglio la proprietà delle sue perle, finite una dopo l’altra in mani straniere, dalla Jaguar alla Aston Martin, dalla Rolls Royce alla Bentley, dalla Land Rover alla Mini. Qualche mese fa, quando l’ultima industria automobilistica nazionale, la Mg Rover, è andata in bancarotta, il governo Blair ha brevemente considerato la possibilità di un intervento pubblico per salvarla, e l’ha scartata. Viceversa, in Germania, quando nel settembre scorso la Volkswagen, già al sicuro dai take-over per legge, è apparsa nei guai, è intervenuta la Porsche, comprandone il 20 per cento, cosicchè la proprietà resta in mani tedesche. Modello britannico e modello continentale: due filosofie contrapposte, da cui dipende il futuro del modello europeo. Ogni paese dell’Europa continentale, chi più chi meno, si oppone alla liberalizzazione totale del mercato, nel timore che ‟una proprietà straniera metta a repentaglio i posti di lavoro”, osserva Katinka Barysch del Center for European Reform di Londra. Eppure sul continente la disoccupazione è il doppio che nel Regno Unito, dove la gente non si aspetta che lo stato intervenga per risolvere i problemi ed è convinta che ‟il miglior proprietario è quello disposto a pagare di più per un’azienda”, afferma Robert Grindle della banca d’investimenti Dresdner Kleinworth Wasserstein. Per i britannici conta che un’azienda rimanga sana e attiva, non la nazionalità del suo proprietario. Se poi, per sanarla, il padrone straniero deve licenziare, così sia: compito dello stato sarà ‟riqualificare” i licenziati, aiutandoli a trovare un altro lavoro. Se ciò significa che un operaio dovrà andare a lavorare da McDonald’s, pagato peggio e dequalificato, pazienza. E’il vangelo predicato da Blair, e prima di lui dalla Thatcher e da Reagan. Qualche inglese, però, consiglia di non esagerare. Con il take-over della O2, una sola compagnia di telefonia mobile resta di proprietà britannica: ‟Quale altro paese lo permetterebbe?”, si chiede l’Evening Standard. La British Petroleum e la British Airways sono le ultime grandi aziende in mani britanniche, sottolinea il New York Times: ma intanto perfino l’America comincia a preoccuparsi dei pericoli di vendere aziende di importanza strategica allo straniero. Non solo gli operai, inoltre, rischiano il posto in un’acquisizione estera: rischia pure il management, che spesso viene rimpiazzato da dirigenti stranieri. Sarà per questo che, nella lista del Wall Street Journal delle businesswomen europee da ‟tenere d’occhio”, non ce n’era nemmeno una del Regno Unito?

Enrico Franceschini

Enrico Franceschini (Bologna, 1956), giornalista e scrittore, è da più di trent'anni corrispondente dall’estero per “la Repubblica”, per cui ha ricoperto le sedi di New York, Washington, Mosca, Gerusalemme e …