Marco D'Eramo: La Russia amputata del Guggenheim

08 Novembre 2005
Non è mai sembrata così santa la Santa Madre Russia come nell'esposizione del Guggenheim Museum a New York, aperta fino all'11 gennaio 2006, intitolata appunto RUSSIA!, con un'enfasi esplicitata dalle maiuscole e dal punto esclamativo. Dal dépliant illustrativo è definita ‟la più esauriente e significativa mostra sull'arte russa al di fuori della Russia, dalla fine della Guerra fredda in poi”. Di sicuro è imponente la lista degli sponsor, che mette insieme antichi nemici come l'Aeroflot e il gigante dell'alluminio, la corporation statunitense Alcoa. Tra le duecentocinquanta opere esposte che spaziano dal XIII al XXI secolo, ci sono alcune piccole meraviglie, soprattutto nelle icone religiose. Più che i quattro pannelli della celebratissima Deesis della cattedrale della Dormizione nel monastero Kirillo-Belozersk (del 1497 circa), è stupefacente la Deesis di Vladimir-Suzdal con i tre volti della Vergine, del Salvatore e San Giovanni Battista quasi in negativo, con una intensità che ricorda Cimabue (anche i tempi coincidono: quest'opera è del primo terzo del XIII secolo). Ma anche più vicini a noi i gioielli non mancano, come il Paesaggio invernale (1827) di Nikifor Krylov, pittore morto nel 1831 a solo 29 anni, un quadretto che ti sorprende all'improvviso per l'incredibile luce che soffonde la piana innevata.
Ma è l'operazione ideologica nel suo insieme che fa riflettere. Suo scopo dichiarato è riportare l'arte dalla dimensione sovietica a quella russa. Ma, per realizzarlo, vanno privilegiati tutti gli elementi che non sarebbero confluiti nell'arte sovietica e, soprattutto, va minimizzata l'avanguardia degli anni '20, cioè l'unica corrente artistica davvero originale e di portata universale che sia mai nata e cresciuta tra Mosca e San Pietroburgo (Pietrogrado? Leningrado?). È come allestire un'esposizione ITALIA! minimizzando l'arte del Rinascimento. Tutta la grafica cartellonistica è esclusa; di Rodcenko un'unica piccola tela non molto significativa. Il Guggenheim può sempre accampare le numerose precedenti esposizioni, tra cui la più importante fu nel 1992 - comunque tredici anni fa - The Great Utopia: The Russian and Soviet Avant-Garde, 1915-1932. La volontarietà di questa scelta è però comprovata dalla simultanea, massiccia presenza dell'avanguardia pre-sovietica, con (per esempio) un forte accento posto non solo sul cubo-futurismo, sul costruttivismo, ma anche su Kazimir Malevic e sul suprematismo da lui fondato, cui pure il Guggenheim ha dedicato una mostra solo due anni fa.
Da qui la sensazione che dell'avanguardia sovietica sia stata operata una vera e propria amputazione che a sua volta produce due effetti. Da un lato carica in senso strumentale l'opposta, massiccia presenza degli artisti del realismo socialista, dello zdanovismo, alcuni dei quali neanche troppo orrendi (o, forse, tanto brutti da diventare belli, secondo un'antica teoria del Sublime): così per esempio la grande tela di Viktor Popkov, Costruttori della centrale idroelettrica di Bratsk (1960-61), con una sua connotazione involontariamente pasoliniana, di borgatari in libera uscita. Cioè il nucleo dell'eredità sovietica è individuato nel pompierismo.
Dall'altro lato, più in profondità, i vincoli imposti da questa operazione limitano il campo artistico alla committenza ufficiale, una committenza dapprima ecclesiastica, per decorare i monasteri con le icone e le Deesis; poi zarista e boiarda per ritrarre nobili e zarevic, infine del partito e del Politburo per esaltare l'homo novus sovieticus. In questa concezione dell'arte russa in quanto russa, l'unico filo conduttore diventa così la dipendenza dell'artista dal potere. Non necessariamente i risultati sono cortigiani. Anzi, in molti ritratti il pittore sembra esercitare una sottile, maligna vendetta nei confronti del suo datore di lavoro. Così le zarine sono dipinte sempre come rubiconde contadinotte, dalle guance paffute, dalle labbra un po' pelose e le dita a salsicciotto. È per esempio significativo il ritratto della zarina Marfa Matveevna, nata Apraksina, seconda moglie dello zar Fëdor Aleksevic (1680 circa). Tra gli esempi migliori di questa secolare tradizione di corte (poi ritradotta nella scuola di partito) c'è un ritratto del boiardo Yukov Turgenev (1694): sanguigno, iracondo, spavaldo, come ti immagini il racconto per bambini di Puskin, Lo zar Saltan, simbolo di come doveva essere la nobiltà russa prima che si compisse la rivoluzione occidentale di Pietro il Grande. A proposito, il busto bronzeo di questo zar ce lo mostra stranamente furbastro, con baffetti e un viso grassottello, più salumaio arricchito e agghindato che ferreo monarca quale lo immaginiamo, capace di uccidere il proprio figlio. Nello stesso modo, dipinto da Orest Kiprensky, il ritratto (1809) del colonnello Begraf Davydov, sciabola, sfrontatezza e attillata uniforme, richiama irresistibilmente gli ufficiali delle feste di Guerra e pace, gli ussari che scolano bottiglie di vodka in piedi in bilico sul davanzale della finestra aperta.
Il problema della committenza fa riflettere sulla rivoluzione ottocentesca che colpì le arti visive a seguito della scrittura. Oggi ci sono certo ancora autori che scrivono libri su ordinazione, biografie di rock star o di campioni di boxe, ma l'idea che un letterato possa scrivere un romanzo su commissione sembra assai balzana. In realtà solo molto di recente le arti, e non tutte, si sono affrancate dal committente: in musica, ancora Mozart e Beethoven componevano su ordinazione, mentre l'architettura (e spessissimo la scultura) è ancora oggi, essenzialmente, un'arte su commissione. E solo nell'Ottocento e solo in Europa la pittura si è liberata: è da allora il compratore ad andare in cerca di un'opera già dipinta, e non è più un artista che va in cerca di un mecenate per un'opera ancora da dipingere. Anzi, l'affrancamento dal committente è ormai parte essenziale della figura dell'artista: la controprova è costituita dal quasi generale fallimento delle opere eseguite su ordinazione (come nella Francia degli anni '70 in cui, per solidarietà contro la giunta di Pinochet, le giunte di sinistra ordinavano agli artisti cileni esiliati orribili mosaici e murales).
Nella mostra RUSSIA! il cerchio dell'operazione ideologica si chiude perciò con l'arte post-sovietica, l'arte della nuova Russia. Indicativa è la composizione di Ilya Kabakov, L'uomo che volò nello spazio (1981-1988), che precede di un solo anno la caduta del muro di Berlino e che descrive con un occhio ormai quasi da storico la vita in un appartamento condominiale sovietico e il desiderio di fuga. I suoi lisi oggetti quotidiani sembrano dirci che solo il crollo del comunismo permette a quest'arte infine moderna, infine libera dalla committenza ufficiale, di riscoprire l'eredità dell'avanguardia sovietica, di appropriarsene e di farla entrare nella comunità mondiale della ‟libera arte in libero mercato”.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …