Stefano Rodotà: Chi scrive l´agenda della nostra politica

14 Novembre 2005
Che cosa è diventata la politica? Quali sono i suoi veri protagonisti? Chi ne detta i ritmi, chi ne fissa l´agenda? Queste domande circolano insistentemente, e non solo in Italia. Proviamo a cercare qualche risposta, partendo da alcuni fatti recenti.
Le primarie dell´Unione: la politica attraversata dai cittadini in modo impetuoso e inatteso. Il caso Celentano: la politica sostituita dalla televisione. L´assassinio Fortugno: la politica sequestrata dalla criminalità. Le bombe a Bologna e in Val di Susa: la politica ostaggio della violenza. Benedetto XVI che indica in Dio il fondamento dei diritti: la politica negata e sostituita da richiami che guardano oltre il mondo (ma intanto, con spiriti assai più terreni, il Pontefice ha avviato le sue personali consultazioni sul futuro assetto del sistema politico italiano. Così la politica esce dal circuito istituzionale, e si affida ad altre mani).
Può un sistema politico vivere secondo i suoi ritmi abituali quando viene sottoposto a sollecitazioni così forti? Quelle vicende, infatti, solo nelle apparenze sono indipendenti l´una dall´altra. Considerate nel loro insieme, non solo producono effetti cumulativi, ma si illuminano reciprocamente. E impongono di guardare ad una politica che sembra sfuggita al ceto dei politici, che ansiosamente cerca risposte tutte congiunturali e così conferma il suo disagio di fronte a fatti politici che si manifestano in forme e luoghi inusuali. E questo ceto, lo ha notato Edmondo Berselli (Repubblica, 7 novembre), ha perduto la capacità di riprodursi, di selezionare una classe dirigente, e continua a dover uscire dalla politica per trovare persone alle quali affidare la rappresentanza e la conduzione degli affari pubblici. Ma non siamo di fronte ad una situazione del tutto nuova, all´improvvisa scoperta di una emergenza. Ciascuno di quei fatti rimanda ad una storia lunga, a fenomeni penetrati ormai profondamente nella società, ed è vano continuare a inseguire soluzioni misurate sul breve periodo, per non dire sulla convenienza immediata.
La folla delle primarie colpisce, e persino esalta, come già era accaduto con "il popolo dei fax" o con il sussulto del "ceto medio riflessivo". Che fare, allora, per evitare che pure questa sia solo una fiammata o che si trasformi in un rito o che esalti vizi personalistici e populisti? Molto è stato già detto ed Ilvo Diamanti (Repubblica, 6 novembre) ha proposto un ragionato catalogo dei problemi. Ma – per intercettare e soddisfare un bisogno che è, insieme, di politica, di presenza diretta e di azione collettiva – non basta invocare una maggiore apertura dei partiti. Nella vicenda delle primarie si intrecciano e si sommano un profilo politico ed uno costituzionale. Nella massiccia reazione sociale, infatti, non si può scorgere nulla che assomigli ad un mandato o ad una delega, quanto piuttosto una decisione diretta (la vera investitura di Prodi) ed una messa in mora, non però del berlusconismo, ma della stessa Unione, chiamata ad una azione politica coerente con il segnale unitario venuto dai cittadini. Il "ci siamo" dei quattro milioni e passa di votanti è persino minaccioso, perché siamo in presenza di un soggetto che si costituisce in palese polemica con la deriva oligarchica dei partiti e che non può essere addomesticato, pena una disillusione che può portare anche ad un tracollo elettorale. Non v´è una rendita sulla quale i partiti possano quietamente vivere.
Da qui l´esigenza di guardare alla dimensione costituzionale. Non però considerando solo una "democrazia di prossimità" certamente positiva per la maggior vicinanza tra governanti e governati, ma che rischia poi di mantenere lontani i cittadini dalle grandi decisioni, quelle che determinano anche le possibilità di azione a livello locale (basta pensare alla legge finanziaria e ai tagli alle risorse per regioni, province, comuni). Dobbiamo pur dirci che siamo di fronte ad una crisi dei modelli di democrazia, che esige analisi che scompongano l´idea stessa di governo, e dunque la distinzione classica tra governanti e governati; che ripensino la rappresentanza e, più in generale, l´accesso ai processi politici; che progettino un ricorso non plebiscitario alla democrazia elettronica (le esperienze sono ormai numerosissime); che allarghino l´iniziativa legislativa dei cittadini facendone reali interlocutori del Parlamento.
La vicenda Celentano sembra appartenere ad un mondo del tutto rovesciato, tutto nelle mani di una sola persona. Anche qui si può guardare al passato, all´emigrazione del momento "teatrale" della politica dal Parlamento a "Porta a porta", con un effetto pesante non tanto di spettacolarizzazione, quanto piuttosto di cancellazione delle procedure democratiche. L´annuncio tutto televisivo di una decisione politica ha le apparenze della trasparenza assoluta (si è davanti agli occhi di milioni di persone), ma la sostanza della sparizione della discussione e del controllo un tempo garantiti dalla sede parlamentare. Fa bene ancora Diamanti (Repubblica, 30 ottobre) a misurare la distanza tra ieri e oggi della politica in televisione ed a sottolineare che la televisione ha sopraffatto la politica. Ma la trasmissione di Celentano ha trovato la ragione del suo successo politico nel fatto che, apparendo come momento di libertà, nella sostanza rivelava agli occhi di tutti l´impotenza di una politica che si era piegata ad ogni esigenza di spettacolo e si era affidata ad una compagnia di giro in perenne transumanza da un salotto televisivo all´altro, ma non era stata capace di ridare la parola ai proscritti di Berlusconi o la voce ai comici. Ma non è un segno di buona salute democratica che la libertà d´informazione e di satira debba rifugiarsi in nicchie televisive.
L´impotenza si fa angosciosa quando la sua rivelazione si trasferisce dagli spazi televisivi all´intero paese, a quelle regioni il cui governo è stato per larghe aree sottratto ai poteri pubblici. Solo un assassinio eccellente, quello del vice-presidente della Regione Calabria, ha prodotto l´avvio di un programma di contrasto della criminalità organizzata la cui drammatica necessità era da tempo consegnata ad infiniti atti ufficiali. Mille citazioni sono possibili. Mi limito a rinviare ad una discussione alla Camera dei deputati del 25 settembre 1990, dove tutto era già detto, connivenze politiche e miserie finanziarie, dove compare proprio Locri. E poi, come sempre, il silenzio dell´azione politica, l´implacabile sedimentarsi dell´illegalità, la cancrena del tessuto sociale e politico. Vi sono oggi le condizioni per un cambiamento? Non azzardo previsioni. Ma sono colpito dall´inadeguata attenzione dedicata ad una affermazione del responsabile dell´azione di polizia in Calabria, il prefetto Luigi De Sena, che ha parlato della decantata "legge obiettivo" per i lavori pubblici come di una legge «criminogena». Quali iniziative politiche sono state avviate per rimuovere immediatamente, in coerenza con l´annuncio di lotta dura, questo sostegno istituzionale all´azione criminale, tanto più grave in vista dell´annunciata costruzione del ponte sullo Stretto?
La violenza, dunque, si tramuta in potere di governo, espropria la politica e impone a questa una difficile riconquista. Su scala diversa, la politica continua ad essere attraversata da azioni che tentano di mutarne il corso violentemente. Compaiono bombe a Bologna e in Val di Susa. Ancora una volta, però, lo sguardo verso il passato ci dice che non siamo di fronte ad una novità. E´ evidente, allora, che vi è un grumo non risolto, malgrado le ricorrenti e unanimi dichiarazioni di condanna. La cultura politica non può esonerarsi dall´obbligo di una discussione rinnovata sul tema della violenza, sulla cui necessità aveva opportunamente insistito Fausto Bertinotti e che oggi è ancor più ineludibile di fronte a vicende come quelle francesi.
Fin qui una politica in molti modi emarginata ed impoverita, soprattutto per colpe proprie, e proprio per questo bisognosa di ritrovare spazio, senso e legittimità. Ma si sta pure segnando un confine che essa non dovrebbe più oltrepassare senza invadere il campo non tanto della religione, ma della stessa divinità. Quando Benedetto XVI afferma che i diritti fondamentali vengono da Dio e precedono qualsiasi legge dello Stato non contrappone l´universalismo religioso ad un relativismo laico. Nega proprio l´universalismo laico che ha preceduto la Chiesa nell´affermazione del carattere fondamentale dei diritti dell´uomo e del cittadino. Stabilisce una gerarchia e una subordinazione dello Stato. Poiché i diritti fondamentali hanno comunque bisogno di essere individuati e specificati, riserva evidentemente questo compito solo a chi può dire la parola di Dio.
Si realizzerebbe così una vera riforma costituzionale. Ma, ancora una volta, siamo di fronte all´esito di un processo lungo, che la politica non ha visto o ha voluto subire. Le citazioni di sé non sono eleganti, ma tutto era chiaro da tempo. "La restaurazione del cardinale Ruini" era il titolo di un articolo qui pubblicato il 26 settembre 1991 e che, purtroppo, mi sembra ancora attuale.
Una realtà così eloquente, una sequenza di fatti tanto significativi non si possono ignorare. Qui è una vera agenda politica, anche su questo si misureranno i programmi elettorali, anche per cercare qualche segno di ritorno di una politica che ritrovi l´orgoglio della sua missione.

Stefano Rodotà

Stefano Rodotà (1933-2017) è stato professore emerito di Diritto civile all’Università di Roma “La Sapienza”. Ha insegnato in molte università straniere ed è stato parlamentare in Italia e in Europa. …