Paolo Rumiz: D’improvviso perde la voce la Città di Dio

27 Dicembre 2005
Comincia sottovoce, la sera, col vento che sale dalla valle del Giordano, serpeggia tra fiori di senape, greggi e pietraie ai margini del deserto, entra nelle vocianti terrazze palestinesi alla periferia orientale della città, fischia nelle intercapedini del muro di cemento che sigilla i territori, cattura l’odore di barbecue e il richiamo dei muezzin metropolitani e li porta fin sul Monte degli Ulivi - dove la vista si apre sul mare in tempesta di colline verso il tramonto - per ricadere come una massa liquida sulla Valle di Cedron, il monastero di Maria Maddalena, la tomba di Maria, il traffico della circonvallazione Est, i cimiteri fuori le mura, la Porta d’Oro, lo scampanìo e le voci dei mercati. Entrare nella città di Dio è un’esperienza acustica indimenticabile. Puoi farlo a occhi chiusi. A guidarti bastano i rumori, i canti, il brusio. è una polifonia affascinante, ma sempre pronta a diventare conflitto. Quando accade, la pluralità di richiami disorienta, talvolta stordisce. Il mormorìo delle preghiere per la fine del Shabbat può sovrapporsi alle cadenzate litanie del vespro nella chiesa di San Giacomo degli armeni; il bip dei metal-detector ai margini del muro del pianto talvolta disturba le genuflessioni nella sovrastante moschea di El Aqsa; e il minareto di quest’ultima può sommergere di decibel il quartiere ebreo-ortodosso di Mea Sharim. In un territorio dove tutto è millimetricamente spartito per fede, uno dei pochi modi per sconfinare è l’onda sonora. Succede anche fra cristiani. Nel Sepolcro, si sa, tutto è spartito con precisione condominiale. Persino i candelabri: quattro ai greci, tre ai cattolici, due agli armeni, uno agli etiopi, secondo un manuale Cencelli della fede. La competizione per il territorio è tale che da secoli il portinaio del tempio è un musulmano, neutrale fra i litiganti. Il confronto si gioca persino in verticale, in un alveare di cripte e retropassaggi, scale e sotterranei, scavalcamenti e ballatoi che lasciano sulla pietra i segni di una tempesta di stili: età di Costantino, Romanticismo, arabi Omeiadi, crociati, Rinascimento, Bisanzio, donazioni hollywoodiane. Tentativi effimeri di mettere un marchio sull’ombelico del mondo. Ma la tempesta vera è acustica. è lì che avverti le differenze. I canti arcaici, vetero-testamentari, degli etiopi chiusi in neri mantelli, immobili nelle loro cripte, indifferenti al flusso dei visitatori. Le litanie baritonali dei greci, rigorosamente maschili, con la lingua araba che riempie di sé le note bizantine. Poi, i canti dei diaconi armeni, ritti come granatieri, i ceri impugnati come baionette. Infine, il Kyrie dei cattolici in processione, con le voci femminili e il suono potente dell’organo - entrambi incompatibili alla cultura ortodossa - che allontanano greci e russi nei loro retrobottega, ad aspettare sbuffando che il tormento finisca. Figurarsi cosa accade quando queste voci si sovrappongono e quando, in sottofondo, si svegliano pure i minareti. Ebbene, per uno strano contrappasso, a Gerusalemme il Natale è silenzio. Mentre a Betlemme hai processioni, messe solenni e luminarie, a Gerusalemme la vigilia è intima, chiusa nelle case, nelle famiglie, nella pancia calda della città. Una volta non era così, quando i cristiani erano numerosi e il muro non era stato ancora costruito. Oggi è un Natale triste, carbonaro, in punta dei piedi. Ci si conta, e si è sempre di meno. La frontiera con i territori occupati impedisce alle famiglie di ricongiungersi, la tensione in Medio Oriente non scende, il terrorismo preme tra i palestinesi. è proprio il 24 dicembre che i cristiani nativi di Terra Santa svelano l’indebolirsi della loro presenza millenaria. Proprio lì, nella città di Dio. Nella notte lunga del silenzio.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …