Gabriele Romagnoli: Quando la morte è sopra le parti

10 Gennaio 2006
Abbiamo visto come muore un uomo coerente. Ce l’ha fatto vedere Fabrizio Quattrocchi, ammazzato dai suoi rapitori in Iraq con la fredda procedura usata per la macellazione di un capo di bestiame (quale è per loro un «infedele») e l’aggiunta di una ripresa televisiva che ha prodotto l’effetto opposto a quello voluto e, probabilmente, portato all’estremo le scelte di comportamento. All’inizio del breve filmato che ci è stato infine concesso di vedere, il prigioniero Quattrocchi è già in posa per l’esecuzione, inginocchiato, il volto coperto. Sul suo corpo si proiettano le ombre di uomini armati: di pistola e telecamera.
Lui è consapevole di entrambe, questo ne determina la condotta. Sa che sta per essere ucciso e che la sua morte, presto o tardi, verrà mostrata al pubblico. La sua reazione è straordinaria, perché ha i toni dell’assoluta ordinarietà. Il tono di voce con cui chiede se può levarsi la kefiah che gli copre il volto è quello di chi domanda al funzionario della sua banca dove deve mettere la firma sul modulo. Sta per morire ammazzato, lo sa e non ha il minimo cedimento. Possiamo metterci tutti quanti, io che scrivo e voi che leggete, a immaginare il momento della nostra morte, raccattare tutta la scorta di filosofia o religione, fatalismo o disprezzo che abbiamo messo da parte per l’occasione, niente ci vaccina contro l’ipotesi che soccombiamo al terrore, che se esisterà un assassino da implorare, un idolo di pietra a cui convertirsi, una qualunque salvifica viltà, non ci sottomettiamo, e invano. Che cosa impedisce a Fabrizio Quattrocchi di farlo? La coerenza con la sua vita. Faceva un mestiere che comportava un rischio e se l’è assunto fino alle estreme conseguenze. Credeva in qualche valore, che lo si condivida o meno non ha importanza, e vi ha fatto appello. Pensava di dover essere sicuro di sé e ci è riuscito.
Avrebbe voluto morire a volto scoperto, ma non sempre gli assassini hanno altrettanto coraggio.
Dice: «Vi faccio... », poi ricomincia e dice: «Faccio vedere... ». perché è consapevole che i veri spettatori della sua morte non sono i telegiustizieri, ma i milioni di persone che soltanto ieri sera l’hanno infine potuta vedere.
A loro dice, con lo stesso tono privo di emozione: «...come muore un italiano». Sono le sue ultime parole. E sarebbe indegno sfruttarle come indegna è stata la gazzarra a suo tempo sollevata sulle ragioni di vita di un uomo morto. Non c’è nell’essere italiano niente che conferisca una speciale qualità, una superiore o anche soltanto diversa capacità di affrontare la vita o la morte. Ci sono italiani morti in maniera ridicola e altri in modo eroico.
Arrivati all’ultimo istante alcuni hanno barattato le idee di tutta un’esistenza per un respiro supplementare, altri hanno riscattato un percorso meschino con un inatteso soprassalto di dignità. Come accade anche a svedesi, americani e iracheni. Pochi sono capaci di restare se stessi e Fabrizio Quattrocchi è stato uno di questi. Non c’è da cingersi la testa con l’elmo di Scipio, non è una dote nazionale di cui ci si possa appropriare, era sua.
E gli merita rispetto.
Con quel «faccio vedere» ha voluto dare un esempio. Quel che ha cercato di dire, prima che i suoi assassini lo facessero tacere, è che chi vive senza mai tradirsi può accettare la propria morte perché accetta la propria vita, assumendosene tutta la responsabilità e concludendola da vittima di una esecuzione, come lo sono tutte, illegittima e infame.
L’ultimo torto che può essergli fatto è che nell’Italia che lui amava quelle immagini e quelle parole vengano usate a sproposito o a sproposito dileggiate per la bandiera di un interesse di parte.

Gabriele Romagnoli

Gabriele Romagnoli (Bologna, 1960) Giornalista professionista, a lungo inviato per “La Stampa”, direttore di “GQ” e Raisport è ora editorialista a “la Repubblica”. Narratore e saggista, il suo ultimo libro è …