Paolo Rumiz: L’ultimo ponte di barche custode delle acque basse

23 Gennaio 2006
L’auto sbuca dalla nebbia, rallenta, monta sulla passerella a passo d’uomo, percuote le vecchie assi come uno xilofono, al ritmo sincopato lento della pianura. è il rumore dei francesi sulla Beresina, dei carriaggi di Armando Diaz verso il Piave, dei tedeschi in fuga nel '45. Le giunture coperte di "galabrosa" - la brina dei padani - cigolano al passaggio, il pianale tuona sui barconi inchiavardati con pulegge. Sotto, il mormorio dell’acqua alpina in viaggio verso il Po, che sbuca lì dietro l’angolo. ‟Giù le mani dal ponte” ti dicono i passanti intabarrati, e fanno il segno di vittoria con le dita, come se Torre d’Oglio fosse Mostar. Non difendono un manufatto, ma l’anima della pianura. La Padania è in guerra per l’ultimo ponte. Non vuole che gli cambino i connotati, come la Provincia di Mantova è decisa a fare in febbraio. La protesta è arrivata in Parlamento, con firme, interrogazioni, presidi sul territorio. Questo, ti dicono, non è solo un ‟ponte di barche”. è di più: un ponte che naviga. L’unico in Europa. Risale o scende la corrente, si sposta come un traghetto con a bordo due passerelle - simili ad ali di pipistrello - da agganciare a quattro approdi diversi, su livelli stradali differenti. Ha anche il suo ponte di comando: la baracca degli addetti, con letti e cucinino. A bordo vietato dormire, il fiume può alzarsi anche di due metri in meno di ventiquattr’ore. Sta effigiato in tutte le guide turistiche, il Touring lo mette in copertina, ma fa niente. Al suo posto vogliono metterci ‟un ambaradan”. Una struttura galleggiante fissa, con ai margini due pedane spaziali governate da terra, in grigliata di metallo, e un bel po’di cemento sulle rive, buono per farci passare i Tir. Portata decupla, forse più; e cancellazione della strada articolata su quattro livelli. Insomma, la fine di un pezzo di storia italiana. Il ponte, del '26, è uno degli ultimi del mondo di ieri; fatto prima che il calcestruzzo generasse le ‟ardite campate” d’epoca totalitaria, e le bombe del '45 completassero l’opera affondando le strutture galleggianti sopravvissute nel Grande Nord. Mica per niente Bertolucci ci ha girato Novecento. Intorno, un labirinto di chiuse, golene, sbarramenti, sifoni, chiaviche, stazioni di sollevamento. E poi argini, fontanazzi, confluenze, idrovore, canali di scolo e canali di bonifica che si incrociano, si sovrappassano in una trama indecifrabile, con l’Oglio che scorre più alto rispetto alla pianura e la può inondare in ogni momento. E il Po, che nei millenni s’è cercato la strada in cento modi diversi, lasciando tracce impressionanti di alvei in secca, e oggi, ancora qui, compie la sua virata più spettacolare. Dopo Pomponesco, il Dio Serpente si gira verso le sorgenti, risucchiato dall’Oglio che subito lo rigurgita in direzione del Delta, in un’altra pazzesca curva da autodromo. Altro che i canali di Francia. Questa è una Mesopotamia, con segni secolari di regimazione delle acque, ben precedenti alla bonifica fascista (la chiamarono ‟riscatto delle terre”), con cascine del Cinquecento, luoghi come Sabbioneta - capolavoro italiano del Rinascimento - costruita su un terrapieno che, in mezzo a fiumi pensili, la fa diventare isola nel gioco impercettibile delle isoipse di questo mare di mezzo pronto a riformarsi a ogni piena. Un labirinto di meraviglie: con in mezzo lui, il ponte di Torre d’Oglio, simbolo e baricentro di un mondo in bilico fra Reggio, Mantova, Parma e Cremona, cuore nobile della pianura. ‟Protesta lumbard”. Alla Provincia di centrosinistra liquidano così la rivolta, e accampano ‟spese di gestione insostenibili”. Poi vai a vedere chi attraversa il ponte, e non trovi leghisti. Stupefatti tedeschi in bicicletta che passano in muto raccoglimento. Contadini della Bassa con i trattori, mamme mantovane che portano i figli all’asilo, cavallerizzi pavesi che vengono qui solo per sentir gli zoccoli calpestare le assi di legno, o i giunti pigolare sulla corrente verdegrigia. Fai il conto dei passaggi - mille in sei ore in un’orrenda giornata di pioggia - e t’accorgi che, col pedaggio di un euro a testa ai non residenti, il ponte si autofinanzierebbe alla grande. Ma alla Provincia non mollano. Per convincerti che non sarà una tragedia, ti mostrano un bel modello: la passerella di Arles, quella a bilancieri dipinta da Van Gogh. Così, come se la Padania fosse la Provenza, come se la corrente del fiume camuno fosse quella, sonnolenta e navigabile, delle chiatte del Midi. Intanto il ponte agonizza per assenza di personale. I pontieri vecchi se ne sono andati, stufi di combattere; quelli giovani non riescono a coprire i turni, non hanno più qualcuno che insegni loro il mestiere. Spesso il pontiere è solo, non ce la fa a navigare verso l’approdo giusto quando l’acqua sale, e così il glorioso manufatto si logora. E il problema si risolve all’italiana, senza bisogno di permessi della Soprintendenza. A Viadana, poco a monte, di fronte a Brescello e al campanile di Don Camillo, il Po scroscia sotto le stelle d’inverno. Sull’argine fa un freddo becco, ‟da lazaron” dicono qui. All’osteria Bortolino si batte carte tra tortellini di zucca, trippa con fagioli, bottiglie di Barbera. Cibo tosto, in bilico fra Lombardia ed Emilia. ‟Quando vuoi far conoscere la pianura ai forestieri, li porti a vedere quel ponte. Lì c’è già tutto. Ma vallo a spiegare ai politici”, brontola Paolo Bergamaschi, 55 anni, consigliere per gli affari esteri dei verdi al Parlamento europeo. Sa che, se fosse in Francia o Germania, la gloriosa passerella navigante sarebbe una vedette. La circonderebbero di cartelli, la collegherebbero a un museo e a un percorso turistico. ‟Non ci vuole niente far rendere questo posto, e trovare contributi europei”. Al mattino dopo fai appena a tempo a vederlo. Dalla passerella fra le barche avvisti già alle sette una striscia fosforica, alta poco più di un metro, che arriva controcorrente dalla confluenza col Po, invade le golene disseminate di salici e alberi di noce, dilaga nelle terre basse, diventa una banchisa di latte, poi si gonfia, oscura il cielo in pochi minuti, forma una massa compatta, felliniana, da Amarcord. ‟La nebbia ritorna”, ghigna Umberto Chiarini, padano innamorato delle sue terre, dietro il suo barbone da baleniere. E col caravan ti porta in immersione, come in sommergibile, in un silenzioso fondale oceanico. Navighiamo in un bicchiere di orzata. Intorno, non c’è luogo che non abbia nome "idraulico". Sabbioni, San Matteo delle Chiaviche, Boccabassa, Canale Navarolo. O la Valle dell’Oca, così detta perché si allagava per salvare le terre vicine, più fertili. Oltre i filari di pioppi, la Corte Motta o la Corte Camerlenga - sentite che nomi - fattorie con terrapieni che portano al primo piano, dove rifugiare uomini, animali e carriaggi in caso di "rotta" del fiume, arche di Noè in mattoni dove il diluvio non arriva una volta per tutte, ma torna sempre. ‟Non tutto si misura in denaro e viabilità - si accalora Chiarini - i pontieri sono anche sentinelle delle acque”. Col ponte, spiega, si rischia di cancellare un presidio. La contezza dei punti deboli dove il fiume può sfondare. La topografia delle "brede", le terre basse; o dei "bugni" (o "budri"), voragini tonde come pignatte che squarciano le argille; dei fontanazzi addormentati; dei sifoni alla base dell’argine. La conoscenza delle sabbie, della cotica erbosa degli argini, della permeabilità dei terreni. O i trucchi per tamponare le falle, che non vanno mai chiuse completamente, perché l’acqua si asseconda, non si tappa mai. Altrimenti, esplode e fa disastri. Odone Rondelli, pontiere in pensione, abita a Cizzolo, a due passi dall’argine, in una casa decorata da vecchi legni portati dal Po. Radici a forma di mantide, uccello, tartaruga. Sul tavolo, ciccioli, salame e lambrusco. Quando arrivò la piena del 2000, fu lui a dire come bloccare i fontanazzi senza danneggiare il terrapieno, usando la stessa acqua che usciva. Lo sapeva perché glielo avevano insegnato i vecchi. Ora, con i nuovi pontieri trimestrali, la sapienza antica non passa più di mano. La controprova? ‟Le rotte del Po sono spesso coincise col passaggio di eserciti, quando la gente, per salvarsi la pelle, non riusciva più a controllare il fiume”. Nella bruma l’impianto idrovoro di San Matteo delle Chiaviche, dove confluiscono tre canali su livelli diversi (Fossola, Ceriana e Navarolo), ti si para davanti enorme, sembra la diga sullo Yangtse, con la lapide dell’ingegner Cavour Beduschi ‟redentore” delle terre impaludate, l’uomo della grande bonifica mantovana. Pannelli elettrici anni Venti, pompe a elica e chiocciola, fondamenta fatte con migliaia di tronchi di salice piantati nel fango a suon di battipali. Una meraviglia, perfetta per un ecomuseo che forse si farà, forse no. Il ponte cigola, fa un lamento lungo come di uccello. Questo, spiega Chiarini, era ed è un punto d’incontro di passanti, turisti, pescatori e barcaioli. ‟Non capirlo, rivela non solo ignoranza nei confronti di un territorio complesso e affascinante, ma anche la fine di un’etica della manutenzione, che è alla base della sopravvivenza del sistema padano”. Il freddo aumenta. Poco in là, cavalieri passano in silenzio sotto l’argine maestro. Un terzetto di poiane in predazione si appollaia sui fili della luce. Nella nebbia filtra aria di neve.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …